Dunque, Paolo VI, che fu arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963, è Venerabile. Tale l’ha dichiarato Benedetto XVI, autorizzando la pubblicazione del decreto, presentatogli dal cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi il 20 dicembre.
Il decreto di Venerabilità non significa ancora che Paolo VI sia stato proclamato beato: per questo occorrerà che sia esaminato, con l’usuale rigore, un miracolo ottenuto per sua intercessione. Le due cose sono strettamente unite: il miracolo rimanda a Dio, che lo concede, il titolo di Venerabile rimanda alla persona.
Il Papa nel suo decreto usa una formula solenne: «Consta che il Servo di Dio Paolo VI ha praticato in grado eroico le virtù teologali della Fede, della Speranza e della Carità verso Dio e verso il prossimo, come pure le virtù cardinali della Prudenza, Giustizia, Temperanza e Fortezza e quelle a esse annesse».
Con queste parole il Papa fa un’affermazione che riguarda la persona di Paolo VI: parla di lui, del suo impegno, della sua dedizione totale al Signore, alla Chiesa, ai fratelli e del modo eccezionale con cui l’ha fatto, un modo che ci può e ci deve spingere a “venerarlo”, a farci interrogare da lui, a chiedergli quale sia stato il suo segreto per vivere “eroicamente” il Vangelo.
Cosa può insegnarci Giovanni Battista Montini? Rileggo il suo primo messaggio alla diocesi, quando fu resa pubblica la sua nomina ad Arcivescovo di Milano (5 novembre 1954): «So i tempi difficili e critici; so i bisogni molteplici e immensi; so l’atteggiamento della vita ecclesiastica, così decisivo per il nome cristiano nel momento presente; so le ansie del mondo del lavoro, agitato da inquietudini spirituali ancor più che da quelle stesse economiche; ma so altresì che la parola di Dio è sempre viva e potente; so che la grazia di Cristo è ancora indefettibile e urgente sulla nostra ora; so che anime generose e profonde sono ancora pronte e numerose nella terra ambrosiana; e spero. E forte di questa speranza muove il mio cuore oggi, domani i miei passi, sempre la mia preghiera, la mia carità, la mia benedizione».
Montini mi appare il vescovo della speranza in un tempo sul quale andavano accumulandosi le nubi che avrebbero velato la luce del sole. Non tutti vedevano avvicinarsi la crisi epocale che stiamo vivendo. Montini non la temette, convinto che non di crisi si trattava e si tratta, ma di necessario discernimento del nuovo sentiero da intraprendere per continuare a portare il Vangelo tra gli uomini e le donne, che Dio manda a servire.
Montini insegnò a sperare, perché credeva che nel volto “paterno” di Dio. Non a caso volle che la Missione di Milano del 1957, uno dei suoi più alti atti di episcopato, avesse come tema “Dio Padre”. Questo era il cuore di tutto: annunciare a tutti che Dio ci è padre e non giudice, che Dio ci ama e comprende e non condanna.
Annunciarlo con la vita, convinto com’era che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Questa certezza lo sostenne, anche quando i risultati erano deludenti, come accadde con la stessa Missione di Milano. L’importante non era raccogliere i frutti, ma gettare a larghe mani il seme, quel «comandamento nuovo dell’amore» che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli.
Fu il vero segreto di Montini, l’insegnamento che credo ci lasci e che ritrovo nell’omelia della sua ultima Messa crismale come Arcivescovo, l’11 aprile 1963: «Noi Preti dobbiamo avere una maniera speciale, un’arte nostra di amare, di amare Cristo. […] Ti amerò, Te solo, con tutta la mia anima, la mia povera anima; il mio cuore è Tuo. […] Fratelli carissimi, lo diciamo ancora anche quest’oggi. Nella stessa misura? Con la stessa gioia, con la stessa capacità di dono, di sacrificio? Con la stessa pienezza?». Per questo appassionato amore oggi è Venerabile.