«Milano ha bisogno di maestri e di punti di riferimento morali, tanto più nella crisi economica e civile in cui è precipitata. In questo senso, come in altri tornanti difficili della storia, sale alla ribalta la voce della Chiesa». Maurizio Ambrosini è docente di Sociologia dei processi economici all’Università degli Studi di Milano e dirige la rivista Mondi Migranti. E sottolinea l’importanza della riflessione del cardinale Scola nel Discorso alla città, di una metropoli alla ricerca di un’anima, ma anche di una presenza cattolica che trova risposte concrete ai bisogni crescenti. Come nel caso dell’emergenza casa.
Nel Discorso alla città il cardinale Scola parla della frammentazione di Milano e della necessità di un’anima nuova da ritrovare. Come legge quest’analisi?
Come un genere letterario non inedito. Hanno parlato di anima della città anche Martini e Tettamanzi. Dunque, questo richiamo a ritrovare la sua anima, sottinteso cristiana, fa parte del genere letterario dei Discorsi alla città dell’Arcivescovo. Mi sembra ancora più significativo il legame tra il Discorso e la successiva dichiarazione di un impegno di 2 milioni da parte del cardinale Scola e della Diocesi sui temi della casa. Questo mi pare veramente ambrosiano. Legare le dichiarazioni, le esortazioni pubbliche con l’impegno concreto e fattivo. A Milano non ci si limita alle prediche, ma il cattolicesimo ambrosiano è fatto di opere, di concretezza e di progettualità.
C’è chi ha letto questa riflessione del Cardinale come un disegno di egemonia sulla società. Al contrario l’Arcivescovo sottolinea la necessità di testimoni in una società plurale, con visioni diverse. Come valuta questa lettura?
La valuto nel senso che la Milano laica non ha più punti di riferimento. Probabilmente patisce una certa condizione di orfanità, di mancanza di padri nobili a cui fare riferimento, di testimoni credibili da "contrapporre" al magistero del Cardinale. Da questo punto di vista una certa Milano laica, quella più sensibile a discorsi di solidarietà, di attenzione alle periferie e agli ultimi, si sente forse spiazzata.
La storia di Milano è fatta di accoglienza e integrazione. Oggi è ancora capace di farlo come un tempo?
Sì e no. Per esempio, mi ha colpito in negativo la scarsa mobilitazione della Milano cattolica nei confronti dei rifugiati, dei siriani, degli eritrei che dagli sbarchi nel Sud sono passati dalla città per poi transitare per lo più verso Nord. L’accoglienza dei rifugiati è stata devoluta agli operatori delle benemerite cooperative. Mi risulta che una sola parrocchia abbia messo a disposizione spazi e si sia mobilitata per l’accoglienza dei rifugiati. È stata un’occasione perduta, un segno di debolezza del tessuto solidaristico di Milano. Certo, oltre le ombre, ci sono i fatti positivi come le molte scuole di italiano che nelle parrocchie in città e fuori fanno corsi gratuiti a immigrati di tutte le provenienze e religioni senza chiedere il permesso di soggiorno. Qui c’è una vera convergenza tra le scuole delle parrocchie e quelle di altra ispirazione, per esempio la Rete delle scuole senza permesso recentemente premiata a Palazzo Marino. Ancora le luci dei medici e altro personale che fanno volontariato negli ambulatori all’Opera San Francesco, al Centro San Fedele, ai Fratelli di San Francesco, a tutti quei centri che erogano cure mediche gratuite a chi non può accedere ai servizi sanitari ufficiali, prevalentemente immigrati irregolari. Penso alle mense dei poveri, ai doposcuola per i ragazzi che fanno fatica. La Milano cattolica rimane capace di solidarietà, organizzata, fattiva, che parla poco ma agisce concretamente sul terreno.
La vicenda dell’emergenza casa in queste settimane è riemersa in tutta la sua gravità…
Raccogliendo l’intuizione del Cardinale, il tema dell’emergenza abitativa dovrebbe essere maggiormente messa al centro della riflessione. Parliamo di periferie, di situazioni di esclusione abitativa. Su questo si potrebbe fare anche di più, dialogando con le istituzioni pubbliche, con le fondazioni. Iniziative (in parte già realizzate ad esempio dalla Fondazione San Carlo, ndr) come un fondo di garanzia per l’affitto da parte dei soggetti deboli, agenzie per la mediazione tra domanda e offerta abitativa, ristrutturazione di stabili in disuso per farne abitazioni a canone moderato, azioni di accompagnamento sociale ed educativo verso le famiglie dei contesti più fragili. Credo che lì ci sia ancora da fare e forse il Cardinale ha messo una prima pietra con il suo gesto di donazione.
Scola sottolinea anche la frammentazione, la vulnerabilità, l’insicurezza dei «nuovi ceti popolari». C’è anche il rischio di strumentalizzazione politica…
Negli Stati Uniti di fronte ai discorsi razzisti anti-immigrati, anti-rom, anti-rifugiati, si chiedono come inasprire le pene nei confronti di questi discorsi. Lì hanno i loro mille problemi con il razzismo, ma almeno dal punto di vista linguistico, delle politiche dichiarate, del discorso pubblico cercano di uscirne. Da noi invece si cerca di ridurre i benefici e quel poco di politiche sociali verso questi gruppi per paura di alimentare le retoriche razziste. Credo che andando dietro a queste retoriche in realtà si aggravi il discorso razzista. Su questo credo che avremmo bisogno di una voce più alta e insistente da parte della Chiesa.
Come valuta l’impegno delle istituzioni pubbliche sui temi dell’esclusione e delle periferie?
Dal punto di vista delle politiche pubbliche l’Amministrazione attuale merita almeno il riconoscimento di aver cambiato linguaggio e approccio rispetto a quella precedente. Ricordiamo che la Giunta Moratti dichiarava il coprifuoco nelle periferie, chiamava l’esercito, sgomberava senza remissione i campi rom, senza prevedere soluzioni alternative per le famiglie. Mi pare che la Giunta Pisapia da una parte abbia cambiato linguaggio e dall’altra cerchi di agire anche sul fronte dell’emergenza abitativa, contemperando la giusta severità e il rispetto della legalità con l’offerta di soluzioni alternative, di accompagnamento, di percorsi di integrazione. Ricucire il tessuto significa attivare micro-iniziative che cerchino di sanare almeno alcuni dei problemi di esclusione nelle periferie o sacche di marginalità che si spingono anche in altre zone della città dove ci sono fabbriche e stabili abbandonati. Lì c’è sicuramente molto da fare.
L’Expo servirà a ridare un’anima a Milano?
Qualche settimana fa ho partecipato a un incontro dedicato ai volontari che si stanno iscrivendo per collaborare all’Expo. Qui vedo un serbatoio di energie allo stato potenziale, che si mobilitano magari per una singola iniziativa, che vogliono esserci, che hanno un interesse anche sui contenuti, su questo evento di cui tutti parlano. Il problema è attivare, mobilitare, rendere più consapevoli e stabili queste risorse, cioè riuscire ad accompagnarli nel passare dal volontariato occasionale, a uno più stabile e organizzato, continuativo e capace di incidere sui nodi strutturali.