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Riflessione

Insieme sul treno della scuola

Ogni anno la ripartenza è diversa e per nulla scontata. Per questo richiede “compagni di viaggio” che sappiano farsi prossimi a bambini e ragazzi con sapienza e rispetto, educando alla relazione e non all’individualismo

di Fabio LANDI Responsabile della Pastorale scolastica diocesana

11 Settembre 2023

Sembra di vedere una scena intorno a quei vecchi treni a vapore nelle stazioni ferroviarie di una volta, quando ogni partenza era a tutti gli effetti un evento. Gente che si affaccia e che saluta, che cerca dove sistemarsi e chiede permesso; altri gioiosi per essersi rincontrati e per l’avventura che li aspetta. Poi ci sono quelli che arrivano in ritardo, trafelati, e altri ancora, già stufi, che non vedono l’ora che il treno faccia la prima sosta. Le mamme sulla banchina si sbracciano commosse cercando di identificare il figlio dietro i finestrini, ma quelli guardano altrove parlando con chissà chi o frugando nella borsa a caccia della merenda. Intanto la grande macchina faticosamente si muove e copre il baccano con fischi e stridii. I primi metri le costano uno sforzo esagerato, poi a un tratto prende velocità e il viaggio inizia per davvero.

La scuola parte così, ogni anno. Più o meno allo stesso binario e alla stessa ora. Eppure ogni volta l’esperienza è unica e per ciascuno dei passeggeri il percorso non ha niente di scontato. L’iter scolastico ha i suoi binari, ma per bambini e ragazzi il compito di decifrare la propria strada, di scoprire chi sono e cosa fare di sé è sempre più impegnativo.

Per questo l’Arcivescovo invita gli educatori e tutte le comunità cristiane a offrirsi innanzitutto come accompagnatori: è una responsabilità molto seria che non può essere confusa con l’elargire istruzioni e consigli dall’alto, ma chiede una prossimità sapiente che sia contemporaneamente rispettosa, franca e coraggiosa. «Raccomando soprattutto l’accompagnamento», scrive nella Proposta pastorale riferendosi alla necessità di una educazione affettiva che aiuti i più giovani a interpretare la propria vita nei termini di una vocazione all’amore.

L’ostacolo maggiore è quello di un estremo individualismo che, nell’ideale e nella pratica, induce a vivere in modo totalmente autoreferenziale, illudendosi «di essere padroni e arbitri insindacabili della propria esistenza». Il risultato non è una maggiore libertà, ma una solitudine e uno smarrimento che producono angoscia, apatia e profonda insoddisfazione. Chiunque abbia a che fare con i più giovani lo constata ogni giorno.

La stessa scuola rischia di diventare funzionale a questa logica. Soprattutto se viene intesa come luogo di affermazione individuale dove la presenza degli altri è vissuta in termini di competizione, anche su fronti diversi: del successo scolastico e/o del prestigio sociale. Se l’obiettivo è quello di emergere, chi rinuncia o non ce la fa finisce tra gli scarti. Ma pensare la vita come una gara è per tutti, vincenti e perdenti, una sconfitta, perché condanna all’ansia di fare continuamente la scelta giusta (agli occhi degli altri) e di costruire un’immagine di sé che sia ogni volta da capo capace di imporsi. Esortiamo i ragazzi a trovare il proprio posto nel mondo, ma, in questi termini, è un compito impossibile.

Al contrario, dovremmo educarli alla realizzazione di sé nella forma della relazione, del legame sociale e affettivo, insegnando la riconoscenza e la condivisione, il servizio e la capacità di ascolto. La vocazione è chiamata ed è risposta: presuppone sempre il riferimento a un altro. L’Altro che ci precede e l’altro a cui ci doniamo.

Vale per gli alunni e, naturalmente, vale per gli insegnanti. Nessuno può salire sul treno della scuola come un pendolare distratto, con le cuffie nelle orecchie e gli occhi sul cellulare. Accompagnarci a vicenda è il modo in cui prendiamo sul serio la nostra vocazione. Non è la proposta pastorale di un anno, ma il «lavoro abituale» di chi vuole «restituire umanità piena» alla vita.