I latinoamericani – mi dice un amico che per lavoro frequenta quelle latitudini – pensano che gli argentini siano italiani che parlano spagnolo e vestono inglese pensando di vestire francese. Una boutade, certamente. Che segnala come tutto il mondo sia paese: gli stereotipi sui confinanti appartengono all’intero globo. Ma che invoglia pure a non fermarsi all’apparenza. In me la battuta si è trasformata in domanda più seria e – vagheggiando su un argentino famoso – mi ha portato ad approfondire.
Su ciò che ha trovato a Roma e che fa in Vaticano, a tre mesi dalla elezione, molto sappiamo di Papa Francesco. Un po’ meno conosciamo a proposito di che cosa abbia lasciato o, meglio, da dove sia partito. L’entusiasmo che al presente lo circonda è una eredità, oppure nel passato anche lui ha avuto momenti meno gratificanti? E la Chiesa argentina come è? Ho chiacchierato di tutto ciò con padre Manuel Martínez, domenicano, già incaricato nazionale per il turismo e i santuari, ora in forza pastorale a Cordoba, presso il Santuario diocesano di Nostra Signora del Rosario.
Padre, un segno generale che molti citano come causato dalla elezione di Francesco è l’aumento delle confessioni. Conferma il dato pure per l’Argentina?
Certamente. Nei santuari il fenomeno è più evidente perché c’è maggiore disponibilità; in parrocchia invece i preti sono pochi e fanno quel che possono. Da qualche mese c’è più gente alle messe e alle confessioni. Persone mai viste. Anche i politici. Soprattutto questa categoria balza agli occhi. Pensi che con l’attuale Presidente, la signora Kirchner, l’allora cardinale Bergoglio si scontrava quasi ogni giorno. Per la festa nazionale, per esempio, il Capo dello Stato non andava alla sua messa, ma altrove. L’Arcivescovo le chiese udienza ben 14 volte: sempre negata. Divenuto Francesco, anche qui oggi c’è un’aria diversa.
Il popolo è stato contento e pure i vescovi. Meno contente sono state le fasce estreme: i tradizionalisti e i progressisti, sia nel clero, sia nella “intellighenzia”. La teologia di Francesco, infatti, da una parte è molto classica, quindi avversa alla teologia della liberazione, dall’altra, però, persegue da sempre un ribaltamento di prospettiva: le cose della periferia devono andare al centro. Per questo ha creato una vicaria pastorale per i quartieri poveri.
La spiritualità del Papa sembra di stampo popolare più che raffinatamente gesuitica…
Non posso dire nulla sulla coscienza interiore. Certamente la manifestazione della spiritualità del Papa è molto immediata. A noi tutti qui è nota, per esempio, la sua devozione a San Giuseppe e a Santa Teresa del Bambin Gesù. A chi gli spediva una lettera il cardinale Bergoglio rispondeva con un biglietto dove era raffigurata l’immagine di San Giuseppe. All’interno della Conferenza episcopale, poi, è stato presidente della Commissione dei santuari. Quindi un’esperienza di questo tipo l’ha vissuta. Così come ha sempre promosso il pellegrinaggio annuale al Santuario nazionale di Luján. La prima domenica di ottobre un milione di giovani si reca a piedi da Buenos Aires fino a Luján (70 km). Ma anche la devozione per San Gaetano, da noi, è molto popolare. È patrono del pane e del lavoro. Il suo corpo è a Napoli. Un altro legame con l’Italia.
Lei lavora in un santuario. La gente sembra frequentare più volentieri i santuari che le parrocchie. È così pure da voi? E ciò è utile per contrastare pure le sette religiose?
Da una parte il santuario offre un clima più caldo, di accoglienza, di disponibilità all’ascolto. E in un contesto di privatizzazione della fede, come l’attuale, il santuario appaga di più. Anche se, per esempio, il santuario nel quale opero non trascura l’attenzione ai poveri: garantiamo una mensa quotidiana a circa 400 persone. Non dimentichiamo, però, che nelle parrocchie c’è un prete ogni 10 mila abitanti, mentre nelle sette c’è un pastore ogni 50 persone; le sette qui non sono un fenomeno massiccio come altrove. Il clima più distaccato nelle parrocchie non è quindi una questione di temperamento dei preti, ma anche di numeri. Numeri bassi che stanno interessando sempre più pure i religiosi. Anche se resta vero che, a differenza di altre Chiese latinoamericane – penso al Brasile, per esempio -, la Chiesa argentina è molto clericale: tutto passa per il prete. Questo è nella testa dei preti e dei fedeli. La pastorale è molto classica, più europea che latinoamericana. Una revisione di questa pastorale verticistica forse aiuterebbe.
L’arrivo del nuovo vescovo, monsignor Mario Aurelio Poli, porterà novità?
È presto per dirlo. Il nuovo vescovo appare a tutti come un pastore ed è stato ausiliare di Bergoglio. Quindi sullo stile pastorale c’è una certa continuità. È tuttavia poco noto, sia al grande pubblico, sia agli amministratori. È mite. Forse allora sarà più dialogico col governo a differenza del battagliero Bergoglio. Ma i temi di predicazione, mutuati dal Vangelo, non cambieranno: corruzione, poveri, disoccupati…
Poco fa accennava alla carenza di vocazioni. Come sono messi i Seminari in Argentina?
Le vocazioni sono poche. Provengono per lo più dalle piccole città. Le grandi vivono pienamente la secolarizzazione. I seminaristi della diocesi di Cordoba dove abito, per esempio, sono 10 e non ci sono novizie negli istituti religiosi. Da noi circola una battuta: ne entrano 5 e ne escono 6. Poi c’è il fenomeno dell’abbandono: sono tanti i preti che lasciano il ministero per problemi affettivi.
Un’ultima domanda più personale e forse irriverente… Il Papa ha scelto di chiamarsi Francesco. Come l’avete presa voi domenicani che vi rifate a San Domenico?
L’abbiamo presa benissimo. E glielo dimostro con due fatti. Su ogni altare – sia domenicano, sia francescano – a destra è raffigurato San Francesco, a sinistra San Domenico. Quindi l’amicizia è un dato storico. A Roma poi, come altrove, nella festa di San Domenico presiede la Messa solenne sempre il Superiore dei francescani e viceversa. Siamo due ordini mendicanti fratelli, non cugini.