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Magistero

Il Papa: la delusione di Giuda,
«uno che non credeva»

Nelle parole che Benedetto XVI ha pronunciato all’Angelus, domenica 26 agosto, c’è una sottolineatura poco comune sul ruolo svolto dall’apostolo che tradì Gesù. E contrapponendolo a Pietro, il Papa rievoca documenti conciliari riguardo ai rapporti tra la Chiesa e il mondo

di Fabio ZAVATTARO

28 Agosto 2012

Sappiamo che Giuda era uno zelota (una comunità apparsa nel primo secolo con l’obiettivo di contrapporsi alla presenza romana, auspicando una indipendenza totale del regno ebraico. Per i romani gli zeloti erano dei terroristi da combattere), e che vedeva in Gesù il nuovo re che avrebbe guidato Israele alla rivolta. Gesù ha deluso queste attese; Giuda si è sentito tradito da Gesù e decide che a sua volta lo avrebbe tradito. Dice il Papa: Giuda era uno che non credeva: non se ne andò, come fecero altri discepoli, e “la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo”.

In queste parole del Papa, nel contrapporre Giuda a Pietro – che non abbandona il Signore: “da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna” – c’è, in un certo senso, la storia dei rapporti tra la Chiesa e il mondo, storia che il Concilio con le sue costituzioni, con i suoi documenti, ha voluto affrontare in modo diverso, aprendosi al mondo, alle difficoltà di un dialogo con i non credenti, con coloro che avevano altre fedi. A pensarci bene, è proprio in questa volontà di uscire dall’isolamento in cui da secoli era rimasta la Chiesa, per impostare un nuovo rapporto con il mondo moderno, la svolta operata dal Vaticano II. E Paolo VI, che accompagnerà la chiesa nel immediato dopo Concilio, lasciando poi il testimone al Papa “venuto da un paese lontano”, Giovanni Paolo II, è ben consapevole di questo vento nuovo che soffia nella comunità dei credenti. Così concludendo l’8 dicembre 1965 il Vaticano II con la celebrazione in piazza San Pietro, immagine simbolica di una Chiesa che si offre, aprendosi, al mondo, che lascia i “sacri recinti” per andare incontro agli uomini nelle strade, nelle piazze, là dove essi vivono e lavorano; concludendo il Vaticano II Papa Montini consegna alcuni messaggi, e dice: “per la Chiesa cattolica, nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Ognuno, cui è diretto il nostro saluto, è un chiamato, un invitato; è, in un certo senso, un presente”. E poi il messaggio di Montini va a coloro che un tempo la chiesa chiamava i lontani: “anche a voi, uomini che non ci conoscete; uomini che non ci comprendete; uomini che non ci credete a voi utili e necessari, ed amici; e anche a voi, uomini, che, forse pensando di far bene, ci avversate. Un saluto sincero, un saluto discreto, ma pieno di speranza; e oggi, credetelo, pieno di stima e di amore”.

Insomma che cosa è stato il Concilio, e cosa rappresenta oggi a cinquanta anni dal suo inizio, in quell’11 ottobre 1962? È sufficiente parlare di novità, di vento nuovo? In quel 1962 il mondo viveva un clima di grande speranza, dopo la violenza della seconda guerra mondiale; un mondo che quasi rincorreva il suo benessere, in uno sviluppo che sembrava non avere fine. La Chiesa, in un certo senso, camminava anch’essa nella serenità del momento. Ma proprio in questo clima, dove, non nascondiamocelo, esistevano rischi di conflitto ancora più minaccioso di quello vissuto, e dove le armi nucleari e chimiche alimentavano – e forse ancora oggi alimentano – gli incubi dell’umanità che guarda alla pace, la Chiesa decide di mettersi accanto agli uomini, solidale con la loro storia, con i loro problemi, per aiutarli a costruire una nuova società. Così dopo gli otto Concili d’Oriente, dopo i quattro Lateranensi, dopo quelli del tardo medioevo, il Concilio di Trento e il non concluso Vaticano I, venti appuntamenti nei quali ci si era preoccupati soprattutto di proclamare dogmi, di lanciare anatemi, il Vaticano II è la grande risposta alla voglia di cambiamento, che un Papa di origini contadine ha pensato e voluto offrire non solo alla comunità dei credenti. Una Chiesa consapevole di essere depositaria di un messaggio di redenzione, di avere un qualcosa di definitivo da dare all’uomo e al mondo; ma nello stesso tempo consapevole di avere qualcosa da apprendere dall’impegno dell’uomo nella storia, da un mondo che vive e cresce a volte lontano dal messaggio cristiano. Una chiesa chiamata al dialogo con i non credenti, con le altre due religioni monoteiste, con coloro che si definiscono atei. Una Chiesa, dunque, attenta come non mai ai “segni dei tempi” dove, per ricordare l’incipit della Gaudium et spes, “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”.

Per tornare, allora, alle parole di Papa Benedetto nell’Angelus domenicale, ecco che la presenza di Giuda diventa elemento emblematico di un dialogo con il mondo, e di una Chiesa che non può non fare i conti con il tema del male, del tradimento, della sporcizia, come proprio l’allora cardinale Joseph Ratzinger aveva evidenziato nelle meditazioni alla via Crucis del 2005. Parole che oggi sembrano ancor più attuali di fronte a ciò che la Chiesa vive, nei tradimenti di alcuni suoi uomini, nelle ferite legate al comportamento di alcuni sacerdoti e religiosi.

L’uomo è caduto e cade sempre di nuovo, ricordava il quelle meditazioni il cardinale Ratzinger: “quante volte egli diventa la caricatura di se stesso, non più immagine di Dio, ma qualcosa che mette in ridicolo il Creatore”. E aggiungeva: “nella caduta di Gesù sotto il peso della croce appare l’intero suo percorso: il suo volontario abbassamento per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio: la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno dell’amore eterno, ma vogliamo dar forma alla nostra vita da soli. In questa ribellione contro la verità, in questo tentativo di essere noi stessi dio, di essere creatori e giudici di noi stessi, precipitiamo e finiamo per autodistruggerci”.