Inizia con un fuori programma, che è tutto un programma, il primo incontro di Papa Francesco con i vescovi italiani. È il primo discorso all’Assemblea generale della Cei, riunita in Vaticano per l’appuntamento più importante dell’anno. Papa Francesco ha appena ricevuto il saluto del cardinale Angelo Bagnasco, a nome di tutti i suoi confratelli , disposti a semicerchio attorno all’Altare della Cattedra, dove solo pochi minuti dopo si siederà il 265° successore di Pietro. Ma ora Papa Francesco è in piedi e parla rivolgendosi a colui che l’ha preceduto. Sembra avere fretta di dire queste parole, pronunciate con il sorriso, quasi dimenticandosi di dover utilizzare il microfono. L’impressione, per chi guarda, è di assistere a una scena di famiglia.
E la prima cosa che dice, a braccio, è un grazie: «Ringrazio per questo saluto». Ma poi, come è nello stile del Papa, c’è subito l’empatia, il riferimento alla vita concreta, al ritmo intenso di queste giornate, e non solo: «Sono sicuro che il lavoro è stato forte. Avete tanti compiti, la Chiesa ha tanti compiti». E la frase chiave: «Il dialogo con le istituzioni sociali, culturali e politiche è compito vostro, e non è facile». Quasi a marcare un confine, e a introdurre gradualmente i vescovi a quello che dirà dopo, nella sua omelia in forma di meditazione. Lo ripete: «Andate avanti con fratellanza. Il dialogo culturale, sociale e politico è cosa vostra. Avanti!». Inizia la celebrazione della professio fidei. Per i vescovi, come per tutti i pellegrini che raggiungono Roma durante questo speciale Anno della fede, acquista un sapore e uno spessore particolari.
Vescovo come voi
Alle 18, puntuale, il Papa entra nella basilica vaticana, gremita non solo di cardinali, vescovi e sacerdoti, ma anche dei circa 200 rappresentanti delle organizzazioni aderenti alla Cnal (Consulta nazionale delle aggregazioni laicali), dei dipendenti della Cei e del Vicariato con le loro famiglie. L’atmosfera è di serena attesa: i posti a sedere sono tutti pieni, e ci sono anche molti fedeli assiepati lungo le transenne di legno che percorrono la navata centrale. «Risveglia in noi uno spirto vigilante», la preghiera del Papa prima delle letture. Ed è con l’accenno alle letture che il Papa, circa mezz’ora dopo il suo ingresso, regala ai fedeli il suo secondo fuori testo: «Le letture bibliche che abbiamo sentito mi fanno riflettere, a me hanno fatto riflettere molto. Ho fatto come una meditazione per noi, ma prima per me, vescovo come voi, e la condivido con noi». La semplicità di Francesco, la voglia di condividere: senza questa introduzione a braccio, che corrisponde perfettamente al parere più frequente che i fedeli danno di Francesco – «è uno di noi» – non si comprenderebbe appieno quello che viene dopo.
L’unica questione
Il luogo, prima di tutto il luogo: non solo la tomba di Pietro, ma «la memoria viva della sua testimonianza di fede». La gioia di ritrovarsi qui per questo primo incontro, con i suoi fratelli. L’altare della Confessione come il «nostro» lago di Tiberiade, lo «stupendo dialogo tra Pietro e Gesù», che «deve risuonare anche nel nostro cuore di vescovi». E poi quella doppia domanda, che Papa Francesco – con un tono commosso e quasi sussurrato, che caratterizzerà tutta la meditazione, dove anche le pause di silenzio riportano ad un testo che prima di essere scritto è stato cesellato dalla preghiera – ripete per tre volte, con Giovanni: «Mi ami tu? Mi sei amico?». «Domanda rivolta a me – dice il Papa con un’ aggiunta al testo – rivolta a ciascuno di noi, a tutti noi». È questa l’unica questione «davvero essenziale», la «cartina di tornasole» del ministero episcopale. «Vivere di Lui è la misura del nostro servizio ecclesiale».
La mancata vigilanza
Le conseguenze dell’amore, che è «dare tutto», sono impegnative. È l’appello del Papa, che nella parte culminante della sua meditazione usa un verbo-chiave del suo vocabolario: «edificare», come essenza dell’autorità, «non siamo espressione di una struttura». La «mancata vigilanza» come madre di tutti i mali, che può trasformare il pastore in un «funzionario» o in un «chierico di Stato». Fino ad arrivare a «rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla a suo nome». «Si offusca la santità della Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda». Parole forti, ma pronunciate con dolcezza e rispetto. Parole che vengono non dal pulpito, ma dalla trasparenza della testimonianza. E la gente che ascolta lo sente, lo percepisce, resta in un silenzio pieno di raccoglimento. A tratti di commozione.
Fare nostro il sogno di Dio
C’è il Nemico, il Diavolo, il Papa lo scrive con le lettere maiuscole. Ma il Signore non vuole questo da noi: è il Buon Pastore, ha la tenerezza del Padre, solo lui può farci passare «dalla disgregazione della vergogna al tessuto della fiducia». «Tu sai che ti voglio bene», le parole di Pietro a Gesù che il Papa invita a fare nostre. Inserendo un altro fuori testo: «Sono sicuro che tutti noi possiamo dirlo». La missione è impegnativa: «Siamo chiamati a fare nostro il sogno di Dio», ma la strada da seguire, per i vescovi, è molto chiara, e il Papa la indica sviluppando l’invito ai sacerdoti a essere pastori che odorano delle pecore. Camminare davanti, ma anche in mezzo e dietro al gregge, è la “ricetta” del Papa, che ai vescovi raccomanda prima di tutto i sacerdoti: «Loro sono i primi fedeli che abbiamo noi vescovi – dice a braccio – amiamoli di cuore, sono i nostri figli e i nostri fratelli».
«Grazie per il vostro amore alla Chiesa»
Alla fine della meditazione, Papa Francesco ringrazia uno per uno i vescovi «per il vostro servizio, per il vostro amore alla Chiesa». E li affida a Maria. «Quali sono le nostre prove?», una delle domande che all’inizio della meditazione aveva esortato i presuli a porsi. La risposta, ancora una volta, a braccio: «Ne abbiamo tante, ognuno di noi sa le sue». Ma «camminare innanzi al gregge» si può, «sciolti da pesi che intralciano», suggerisce il Papa.