Si svolgeranno giovedì 17 novembre, alle 10.30, nella chiesa parrocchiale di Gorla Minore (Varese), i funerali di monsignor Oreste Colombo, cappellano di Sua Santità e a lungo vicerettore del Collegio Rotondi, morto improvvisamente nella notte tra il 14 e il 15 novembre. La comunità del Collegio – col rettore don Alberto Torriani, don Luigi Ferè, i sacerdoti, i docenti, il personale, i bambini e i ragazzi – lo piangono grati per il lunghissimo ministero da lui svolto con passione e dedizione dalla ricostruzione post-bellica fino a pochi anni fa. La camera ardente è allestita presso la cappella di San Maurizio, mentre mercoledì 16 novembre, alle 21, presso la chiesa di Gorla Minore, avrà luogo la recita del Santo Rosario.
Da qualche anno ricoverato presso la Casa di riposo “San Luigi Gonzaga” a Gorla Minore, monsignor Colombo era nato a Carugo (Como) il 28 luglio 1922. Ordinato sacerdote il 26 maggio 1945 dal Beato cardinale Ildefonso Schuster, venne subito destinato al Collegio Rotondi come vicerettore a fianco di don Pietro Cazzulani (appena nominato rettore), che gli affidò la conduzione della Casa di Vacanze di Campestrin di Fassa, di cui poi divenne direttore.
Nel 1953 il nuovo rettore, monsignor Lino Mangini, lo confermò e iniziò con lui un percorso di stretta e fraterna collaborazione, all’interno di un Collegio che si apriva con rinnovata energia alle esigenze spirituali del territorio. Nel 1971 don Oreste lasciò la carica di vicerettore e fu nominato padre spirituale, dando il suo leale appoggio all’opera educativa dei rettori subentrati a monsignor Mangini, da don Carlo Crotti a don Claudio Silva, a don Luigi Ferè.
Visse il suo apostolato anche all’interno della parrocchia di Gorla Minore e divenne un punto di riferimento per l’intera comunità. Il 23 agosto 1991 fu nominato cappellano di Sua Santità e diventò ufficialmente cappellano dell’Associazione Ex-Alunni. Nel 1995 fu solennemente festeggiato il 50° anniversario di sacerdozio.
Al Rotondi lo ricordano così: «Don Oreste ha lasciato un segno profondo nelle generazioni di studenti passati da quel Collegio che ha sempre amato, difeso e sostenuto, dedicandogli tutta la sua vita. Severo, eppure sempre aperto alla comprensione, all’amore e alla generosità, insegnava ai suoi ragazzi il valore della disciplina come strumento indispensabile per vivere con rigore e coerenza una Fede che doveva tradursi in impegno costante. Lo faceva con la presenza, con l’esempio e con la testimonianza. Lo faceva con la preghiera, con la Santa Messa e con la cura pastorale delle anime. Lo faceva mettendo al centro della giornata la figura del Cristo. I suoi ragazzi capivano immediatamente che lo spirito della cultura appresa sui banchi di scuola è la Fede e che l’essere cristiani non è separabile dai gesti e dalle parole che compiamo nel corso della nostra giornata. Il rimprovero non era mai rancoroso. Il richiamo non era mai umiliante. Anche quando era impartito con durezza, era sempre frutto di giustizia… Il suo carattere era franco e cordiale, ruvido se si vuole, ma di una schiettezza virile…».
La montagna, luogo per avvicinare Dio
«La montagna era la sua palestra – continua il ricordo -. Scalare la Marmolada, alzandosi nel cuore della notte, o le altre cime delle Dolomiti non era un’impresa sportiva come usa adesso. Era un modo per ascendere alle vette e nel silenzio cercare e contemplare il mistero di Dio. Sulle cime Don Oreste poteva commuoversi come un bambino e mettere a nudo quel cuore che in Collegio doveva spesso nascondere, per mostrarsi forte di fronte ai suoi ragazzi, per insegnare a superare le emozioni, a vincere la passione con la ragione.
Era un uomo del suo tempo, con quella irruenza educativa che la scuola di allora permetteva e che le famiglie accoglievano senza fraintendimenti, contenti di trovare un sacerdote severo eppure buono, un educatore esemplare per integrità e dedizione. Per questo don Oreste aveva un feeling speciale con i bambini delle elementari che gli volevano bene, quando, ormai anziano, come un umile pellegrino, bussava a ogni classe per cercare offerte da destinare alle missioni e ai poveri.
Era un prete, voleva esserlo. Per questo in nessun giorno della propria vita ha smesso di indossare la tonaca. Manteneva la promessa fatta alla mamma, ma segnava la sua diversità, con una punta d’orgoglio. L’orgoglio di essere sacerdote. Il coraggio di esserlo sempre e comunque, anche quando la sua testimonianza poteva spiacere a chi cercava una testimonianza meno diretta. Ora tocca ai giovani dare vita a un’esperienza altrettanto forte, rocciosa e adamantina che, come la sua, lascia il segno nella vita del Collegio».