Nell’omelia pronunciata a Venegono durante la tradizionale “Festa dei fiori”, in cui si festeggiano le ricorrenze delle ordinazioni sacerdotali, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che era tra i festeggiati, ha ricordato – in alcuni passaggi – i suoi anni in Seminario: prima da chierico e poi da docente. Qui parla dell’ingresso in seminario.
di Dionigi Tettamanzi
Per la verità ho avuto un pre-seminario: la mia famiglia, la mia parrocchia, il mio parroco, il mio gruppo di chierichetti. Proprio lì il Signore mi ha raggiunto e mi ha fatto balenare la vocazione a diventare prete. In realtà, tutti i cammini vocazionali hanno un loro pre-seminario: uno diverso dall’altro, riflesso della varietà fantasiosa di Dio e soprattutto del suo amore.
Il primo seminario è stato quello ginnasiale di San Pietro Martire a Seveso, dal 1945 al 1950. All’entrata, nel grande quadrilatero, all’età di poco più di undici anni, due piccoli fatti mi hanno fortemente colpito. Il primo: allora si doveva portare il materasso; ed ecco che un giovane prete te lo afferra con decisione, se lo mette sulle spalle e corre a portarlo al posto fissato. Mi sembrava davvero un prete, ma poi ho saputo che era fratel Dosso, un oblatino, come allora si chiamavano. Un gesto, quello, che poi si è ripetuto innumerevoli volte, nelle più diverse forme. Infatti la comunità dei fratelli oblati ha sempre accompagnato la mia vita di seminario: con tutti voi li voglio ringraziare per il servizio umile e generoso svolto a favore dei futuri sacerdoti.
L’altro fatto: il mio parroco, che con mia mamma mi accompagnava, ha subito chiamato un suo compagno di messa, insegnante di matematica e di francese in seminario. Una volta arrivato, il parroco mi dice: ti raccomando, non fare come lui, che per i primi quindici giorni di seminario non ha mai smesso di piangere perché voleva tornare a casa. No, tu devi avere coraggio!
In realtà c’era proprio bisogno di non poco coraggio per vivere la vita del seminario ginnasiale di allora. Rivedo i portici pieni di nebbia fitta e risento le aule piene di freddo, a mala pena riscaldate dai cosiddetti “decani” con stufe a legna. Rivedo il grande refettorio, con i segni di una guerra che, almeno nel cibo, sembrava non essere ancora finita. Ripenso alla vita del seminarista, che – nella preghiera e nei ritmi della giornata tra silenzio e azione – era un formato in piccolo della vita del prete. C’era allora molta serietà, ma insieme anche molta allegria per i tanti compagni, per i giochi, per i passeggi, per il canto, ecc. Non è mai mancata l’umanità – forse burbera ma autentica – dei diversi superiori e professori: avendoli tutti nella mente e nel cuore, li ringrazio e per loro prego.
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