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Milano

Guardare con fiducia al futuro perché non viviamo un momento di declino e di decadenza

Con un Convegno in “Cattolica” e la Messa, presieduta dall’Arcivescovo nella basilica di Sant’Ambrogio, è stato celebrato il Centenario dell’Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo

di Annamaria Braccini

23 Novembre 2019

Una mattinata intensa, vissuta tra preghiera, riflessione, approfondimento, memoria grata per il passato, sguardo proiettato sul futuro.

L’Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo compie 100 anni e festeggia questo importante traguardo, a Milano, con un Convegno dal titolo “Dentro il mondo con il cuore immerso in Dio”, che si svolge presso l’Università Cattolica, e con la Celebrazione eucaristica presieduta, nella basilica di Sant’Ambrogio, dall’Arcivescovo.

Era, infatti, il 19 novembre 1919 quando, nella chiesa di San Damiano ad Assisi, un gruppo di 12 donne laiche consacrava la propria vita a Dio, dando avvio all’Istituto delle Missionarie, nato dall’ all’esperienza spirituale della venerabile Armida Barelli e dall’intuizione di padre Agostino Gemelli. Inserito nella famiglia francescana, l’Istituto venne riconosciuto di Diritto pontificio nel 1948.

Con i saluti del rettore dell’Università Cattolica, Franco Anelli, e dell’assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo, Monsignor Claudio Giuliodori, si apre il Convegno, moderato da Ernesto Preziosi dell’Istituto “Giuseppe Toniolo”, nel quale portano le loro comunicazioni più voci, tra cui anche la Presidente dell’Istituto, Fiorella Pecchioli.

La mattina si conclude con la Messa in Basilica – «in questo luogo che ci è caro e nel quale ci sentiamo a casa» -, concelebrata da una ventina di sacerdoti, tra cui i vescovi Giovanni Giudici, Paolo Martinelli, vicario episcopale per la Vita Consacrata maschile e le Forme di Nuova Consacrazione, Claudio Giuliodori, il vescovo maronita di Aleppo, Joseph Tobji, in visita a Milano, l’abate di “Sant’Ambrogio”, Carlo Faccendini e l’assistente generale dell’Istituto, il francescano padre Ernesto Dezza.

Nella sua omelia, l’Arcivescovo invita a guardare con fiducia al futuro, «contro schemi precostituiti che prevedono, per le istituzioni e le persone, un inizio, uno sviluppo e un declino».

«Un fatto», il declino che, tuttavia, «non è un dato di fatto», anche se «l’ottusità pigra è incline alla rassegnazione consigliando di adeguarsi ai luoghi comuni e a statistiche ritenute indiscutibili: ieri eravamo tanti, ora siamo pochi; eravamo giovani, siamo vecchi; c’era entusiasmo, oggi c’è disimpegno».

Un’analisi del momento che viviamo come decadenza che è – per il vescovo Mario – «una malattia mentale, piuttosto che una lettura obiettiva» e che, come tutte le sindromi, si presenta con alcuni sintomi.

Anzitutto, si ammala il linguaggio «pieno di “ormai”»; poi è la volta dell’anima «con sentimenti diffusi di tristezza, scoraggiamento, smarrimento. Infine, si ammala l’economia, per cui si procede a un accumulo improduttivo o a un consumismo scriteriato, visto che siamo alla fine».

«Questa sindrome è diffusa come un cattivo odore che entra dappertutto: nelle famiglie, nelle comunità di vita consacrata, nella comunicazione pubblica, negli animi dei contemporanei».

Ma esiste una ricetta, un rimedio per guarire?

Sì, la risposta chiara dell’Arcivescovo. «Bisogna dire che il Regno di Dio è vicino. Il cristiano non può tacere perché crede che la parola sia un seme che viene seminato perché produca frutto e che, dunque, abbiamo tutti la responsabilità di estirpare le parole malate».

Con la stessa logica può guarire anche l’anima. «Lo stato d’animo non deve dipendere dalle impressioni o dal contagio dei luoghi comuni, ma dalla parola che chiama, dalla promessa che viene da Dio e che induce a condividere l’abbandono fiducioso di Gesù. La certezza della fede apre alla speranza e libera dal ripiegamento su di sé che genera tristezza e scoraggiamento».

Senza dimenticare che esiste la guarigione della storia «al cui inizio si è realizzato già quel compimento che noi possiamo vivere solo nel frammento. I passi degli Apostoli sono lenti, ma il Regno arriva presto: è l’Eucaristia».

Da qui la conclusione che è anche una consegna. «Così voglio accompagnare il Centenario: guarire trasformando il linguaggio, ospitando nell’anima la promessa di Dio, medicando la storia, riconoscendo nel frammento il compimento, celebrando l’Eucaristia».