La comunione tra le Chiese che è questione centrale per la missione – tra Chiesa che “manda” e Chiesa che “accoglie” -, e, poi, ancor più in profondità, la capacità di entrare in una relazione integrale nella quale comunicare esperienze vive, scelte, stili di vita, in una logica di condivisione dei doni ricevuti dal Signore e donati agli altri. Il cardinale Scola dice così, dialogando con più di sessanta missionari e missionarie Fidei donum, riuniti al Centro Pastorale di Seveso per una due giorni di convegno (22-23 ottobre), articolata tra relazioni, lavori di gruppo, approfondimenti, preghiera e, appunto, l’incontro con l’Arcivescovo, protrattosi per oltre un’ora e mezza.
Una sorta di “caminetto” informale e cordiale, per raccontare e “raccontarsi” attraverso ciò che si è vissuto in missione, domandando, chiedendo consiglio, confrontandosi. Ci sono il responsabile dell’Ufficio per la Pastorale missionaria, don Antonio Novazzi, i suoi collaboratori, venti missionari tornati appositamente per questo appuntamento, tre in partenza e altri che sono stati, in tempi diversi, ai quattro angoli del mondo. Il Cardinale nota subito: «La dimensione della fede è per sua natura missionaria, ma la missio ad gentes è quella in cui la natura della nostra fede emerge con più forza». Da qui una gratitudine «personale e della diocesi», particolarmente sentita.
Laura, dal 2011 a Huacho (Perù), dice: «Partiamo tutti con il grande desiderio ideale di vivere lo scambio tra Chiese, ma sappiamo che ciò non è immediato, a volte manca l’accompagnamento come pure la corresponsabilità tra laici e sacerdoti. Come la diocesi può preparare questo scambio, costruendo relazioni prima del nostro invio?». Anche don Maurizio Oriani, in Zambia dal 2008, in riferimento al quinto punto del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale (in cui si cita espressamente l’esperienza dei Fidei donum), chiede: «Vorremmo capire come la Chiesa di Milano sostiene l’appello a un cammino di arricchimento reciproco». Chiara e Giovanni, marito e moglie ora tornati con tre figlie nate in Perù negli anni della loro missione, si interrogano su «come coinvolgere nella pastorale ordinaria e, specificatamente in quella missionaria, le tante Cappellanie di stranieri presenti nel nostro territorio».
L’Arcivescovo riflette: «La questione determinante e imprescindibile è lo scambio tra le Chiese, dal punto di vista non solo giuridico, ma sostanziale. La figura del Fidei donum nasce appunto come un “dono” che genera comunione. Certo – sottolinea -, questo elemento ha bisogno di un approfondimento, di divenire più palpabile, a fronte di una fatica che spesso si rende maggiormente evidente in noi, come Chiesa che invia». L’invito è a cambiare atteggiamenti talvolta radicati nella tradizione dei pur fecondi gruppi missionari presenti nelle parrocchie. che «oggi, fortunatamente, hanno qualche giovane in più, frutto anche dell’azione e dell’impegno dei laici che partono».
Il compito è essenzialmente educativo: «L’Ufficio di Pastorale missionaria è uno strumento e un mezzo fondamentale, ma il problema è l’autocoscienza, sia nel missionario, sia in chi resta a casa, del messaggio di condivisione che ha sempre preso avvio dal bisogno concreto, ma spalancato poi a quel desiderio di infinito che è desiderio di felicità e compimento. Questa consapevolezza nella vocazione missionaria deve essere forte e “ubbidita”. Coloro che scelgono di “andare” devono farlo con una motivazione vera». Insomma, il problema è quello di sperimentare l’integralità nella missione, la sua unità perché, senza una chiara visione personale e ecclesiale dello “scambio”, «si rischia di rimenare nell’individualismo». In un tale cammino, ancora molto lungo, l’Arcivescovo non nasconde che «la vostra testimonianza è fondamentale».
Torna il tema della collegialità, si parla del Papa e dei Vescovi, ma soprattutto di come aiutarsi vicendevolmente nella nostra Chiesa. «Quale contributo possiamo dare noi Fidei donum alla diocesi e come dare una mano a lei, Eminenza?» «Questo sarebbe molto importante», dice quasi fra sé il Cardinale continuando a prendere appunti.
Eugenio, laico, con un ambito di servizio pastorale maturato in Venezuela in una comunità di oltre 18 mila persone, va dritto al cuore: «In questa partita il Vescovo è con noi o no? Ci incoraggia come laici a guidare comunità in assenza magari di presbiteri?». Don Andrea si domanda cosa si dovrebbe imparare dalle giovani Chiese, anche quelle italiane e europee, in una geografia ecclesiale in profondo mutamento: basti pensare, anche nel nostro Paese, alla carenza di vocazioni e all’immissione, sin dal Seminario, di futuri sacerdoti provenienti da diverse zone del mondo. A Venegono attualmente ci sono, per esempio, due seminaristi diocesani, uno dello dello Sri Lanka, un filippino in terza teologia, e un giovane della Repubblica centrafricana venuto per gli studi.
«Bisogna imparare ciò che lo Spirito suscita in ogni Chiesa. Abbiamo, in questo, un esempio preclaro, in Papa Francesco, che ha portato tra noi la forza che viene dall’America Latina – scandisce Scola -. Il punto centrale è tessere relazioni intense di comunione e far circolare queste esperienze, con uno scambio personalizzato capace di arrivare alle comunità». Questa, dunque, la “strada maestra”, nella consapevolezza del respiro universale che la Chiesa attua e porta.
Particolarmente significativa una breve, ma “forte” osservazione del Cardinale: «Nella zona di Lecco ci sono circa centrotrenta canoniche non abitate. Perché non mettervi, dopo un’opportuna formazione, una famiglia, dei laici che guidino il Rosario, promuovano l’Adorazione, aprano le porte all’accoglienza? La Chiesa italiana è chiamata a un salto di qualità, abbiamo pochi anni per non perdere del tutto il legame con la gente che ancora ci segue, perché la fascia intermedia d’età è oggi fortemente provata e non riesce a vedere più il rapporto quotidiano tra Cristo e la vita».
Nel grande rischio della frammentarietà – come, non a caso, sottolinea la Lettera pastorale – vi deve essere “pluriformità nell’unita”, perché tutti i carismi si vivano all’interno di un’unita che precede. È ovvio che il “campo” non sia solo questione geografica, ma innanzitutto, antropologica: a don Orazio che propone «cosa fare perché tutto il peso delle difficoltà non ricadano sull’esperienza del singolo inviato», e a don Silvio, in partenza l’11 novembre per il Perù, che si preoccupa di una maggiore sinergia e collegialità tra i sacerdoti, l’Arcivescovo indica ancora il nevralgico ruolo dell’educazione, che «deve essere permanente, nascere dalla vita, crescere nell’esperienza».
Infine don Mario Antonelli, per anni in Brasile, relatore al convegno su “L’ospitalità forma della missione”, chiede: «I Fidei donum potranno inviare suggerimenti per la prossima Lettera pastorale?». «Voglio essere sostenuto anche da tutti voi – conclude il Cardinale – perché il passaggio della convenzione alla convinzione implica la personalizzazione; ma la persona non è l’individuo, è colui che si connette alla comunità». E, alla fine, anche un annuncio: a metà luglio 2014 l’Arcivescovo sarà in Zambia, «perché da lì siamo partiti», come diocesi, cinquant’anni fa con i primi Fidei donum.