La parola «osmosi» viene ripetuta spesso dal cardinale Angelo Scola a Carate Brianza. Intende indicare qualcosa di più di testimonianza, termine talmente tanto usato da essere “logoro”. È quel processo spontaneo attraverso il quale una “comunità educante” trasmette i propri valori ai più giovani. Con l’esempio dell’amicizia in Cristo dei suoi membri. Con la vita. È il metodo suggerito da Scola per accompagnare i ragazzi «in un mondo scheggiato».
La comunità di Carate e Albiate lo ascolta la sera di martedì 21 gennaio, seduta a riempire le 796 sedie (più due spazi per carrozzine) del Cinema Teatro Agorà, Sala della comunità al nuovo debutto dopo un importante restauro (impianti adeguati alle norme di legge e tetto rifatto; è gestito da un direttore affiancato da oltre 80 volontari e propone film e spettacoli teatrali). Accanto a Scola siedono il vicario episcopale per la Pastorale giovanile monsignor Pierantonio Tremolada, il vicario di Zona padre Patrizio Garascia, il responsabile diocesano del Servizio giovani don Maurizio Tremolada, il direttore della Fom don Samuele Marelli. Nella platea siedono i sacerdoti della città, i catechisti, gli animatori, gli allenatori della società sportiva, gli insegnanti della scuola parrocchiale, i genitori: tante figure chiamate a insegnare la fede ai ragazzi, entrando, ciascuno per il proprio frammento, nella giornata scheggiata dei giovani.
Sulla scia dell’Incontro mondiale delle famiglie del 2012, a Carate hanno sperimentato una catechesi che coinvolge i genitori tanto da renderli anche catechisti. A turno raccontano Gesù ai ragazzi, affiancando il catechista tradizionale. È una delle modalità di trasmissione della fede di una comunità che ha scelto di dare unitarietà a tutti i suoi ambiti educativi, come ben testimoniano i parrocchiani (un allenatore e due mamme) che prima dell’Arcivescovo raccontano la loro esperienza.
Evitare la delega
Parte da questi elementi l’ampio intervento del cardinale Scola, che approfondisce il tema della “comunità educante”: «La nostra società è frammentata, scheggiata. Manca un principio esistenziale unificante, senza il quale la persona non cresce. Ne deriva che i ragazzi si trovano nella frammentazione: al mattino vanno a scuola, poi vivono un’ora di catechismo, un’ora di strumento musicale, poi lo sport, poi hanno i parenti da andare a trovare, magari anche i genitori separati da alternare…».
In queste dinamiche si inserisce la catechesi dei bimbi detta “iniziazione”. «È un termine che proporrei di mettere in secondo piano», precisa Scola, perché è talmente abituale da essere diventato scontato, «non emoziona più». Ma continuando a utilizzarla per facilità di comprensione, l’Arcivescovo la definisce come «educazione all’appartenenza a Cristo» in un’epoca dominata dal narcisismo: «Oggi l’io domina la giornata dal momento del risveglio a quello del sonno… In questo scenario l’iniziazione si inserisce come introduzione e accompagnamento del ragazzo all’incontro personale con Gesù nella comunità cristiana».
Raccomandando di evitare la delega dell’educazione alla fede, fosse anche alla figura decisiva del catechista, Scola sostiene che un accompagnamento reale si realizza solo «se tutte le figure adulte che hanno a che fare con i ragazzi si adoperano, nello specifico del loro compito, affinché costoro si spalanchino all’unità dell’io cui più hanno bisogno quanto più la loro vita è frammentata». Così i giovani «possono fare l’esperienza bella dell’appartenenza a Gesù come con-veniente, come profondamente corrispondente ai bisogni, alle domande e al desiderio che covano».
Una trasmissione per osmosi
Eccola, la comunità educante: «È una fraternità tra persone che hanno a cuore il ragazzo a partire da un aspetto della sua vita, quello di propria competenza». L’amicizia tra queste persone, aggiunge, «se deve comunicare Gesù come vivente e personale deve poggiare essa stessa sul rapporto degli educatori con Gesù». Fino a trasmettere, per osmosi, il proprio contenuto di fede a chi ha accanto.
Il ragazzo si troverà «in un ambito di relazioni nuove che percepisce di fatto. Un insieme di legami, azioni e gesti gli fanno intendere che appartenere a quella fraternità è bello». Bello perché ha futuro, può essere per sempre. Altrimenti il catechismo «diventa un semplice doposcuola e prima o poi si molla».
Attenzione, però. Scola tiene a precisare che un allenatore non è chiamato a spiegare ai suoi calciatori la Trinità, una maestra di matematica non deve trascurare le moltiplicazioni e insegnare religione. «È decisivo il modo in cui insegna e guarda in faccia un ragazzo – precisa il Cardinale – . È decisiva la relazione personale e soggettiva, la cura di tutta la sua persona. È un fatto di osmosi e di stili, non di parole». Un po’ come in famiglia, dove a un figlio non si spiegano le relazioni. Le impara perché ci si trova in mezzo. L’esperienza cristiana è di più, «è una nuova parentela, più forte della carne e del sangue, permette alla parentela carne e sangue di durare».
Nelle intenzioni di Scola costruire una comunità educante non è un modello da applicare forzatamente nelle 1104 parrocchie della Diocesi. «La proposta – spiega – è che a seconda dei numeri e dei bisogni si edifichi un’esperienza di comunione. Con tutto il tempo che ci vorrà, con realismo e con le forze a disposizione”. Se poi in un paese, per esempio, c’è solo un parroco anziano con due catechiste anziane e non riesce a farlo, «non è un problema – concede il Cardinale -. Non voglio proporre uno schema e un modello obbligatorio”. Ma costruire comunità educanti è prezioso perché, conclude l’Arcivescovo, “è una grande occasione per andare incontro all’umano, percorrere le vie dell’umano. E dà risposta anche a un fatto: che, nonostante tutto, tante famiglie, nelle nostre terre, chiedono ancora il battesimo per i loro figli».