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Testimonianze

Due preti novelli a cuore aperto

Don Tommaso Pedroli e don Ruben Roncolato raccontano le loro storie e le loro emozioni a pochi giorni dall’ordinazione

18 Giugno 2012

Il segreto di un prete felice

«Io sono un prete felice». Onestamente, non avevo capito che quel signore di mezz’età fosse un prete, visto che stavamo quasi tutto il giorno in tuta da sci. D’altronde non conoscevo nessuno a quella vacanza, tranne la ragazza che mi aveva convinto a parteciparvi e il gruppetto delle sue amiche più strette. Una settimana sulla neve, in Val d’Aosta. Tutto sommato una bella occasione, pensavo.

Da piccolo avevo conosciuto diversi preti, perché la mia parrocchia è sede di un convento di frati francescani. Tutte persone che stimavo, uomini di profonda ed operosa fede, che si guardavano con affetto e virilità. Nessuno di loro, tuttavia, si era mai presentato così esplicitamente: «Io sono un prete felice!». Non sapevo nemmeno il suo nome, e ci avrei messo un po’ per impararlo. Era il 6 gennaio del 2001.

Un anno e mezzo più tardi, quasi senza nemmeno conoscermi, mi invitò ad una vacanza dei responsabili di Gioventù studentesca. L’ordine era stato di portarsi il pranzo al sacco. Dopo un’ora e mezzo di viaggio, tuttavia, il pulmino si fermò presso un promettente ristorantino affacciato sul Lago di Como. Ci costrinse a valutare la differenza fra un panino ed un pranzo vero… Pagò lui per tutti e ripartimmo per Saint Moritz. Don Roberto ci ha sempre insegnato il gusto delle cose belle, semplici ma curate.

Poi mi chiamò ad occuparmi della segreteria di Gs: furono due anni intensi, il nostro rapporto crebbe rapidamente. In quel periodo mi cercava spesso, senza mai essere indiscreto. Voleva sapere come andavano i gesti, le iscrizioni alle vacanze, il lavoro con la segreteria. Quando qualcosa non era curato alla perfezione, quando c’era un ritardo, si arrabbiava. Era esigente, ma sempre paterno nella correzione.

Ma ciò che più mi colpiva di lui era quella totale semplicità e letizia di fronte al lavoro nella sua grande parrocchia e alla responsabilità di Gs. Una letizia che sorpassava ogni limite e che sorgeva direttamente dal riconoscimento del compito affidatogli da Dio per il mondo intero. Andava a toccare le persone più impensabili e lontane. Portava quanti incrociavano il suo cammino a scoprire, insieme a lui, la gioia della vita con Cristo. E quando a scuola di comunità ci raccontava queste vite cambiate le difficoltà erano sempre messe in secondo piano: «Vi ho mai detto che sono un prete felice?». Sì, don Roberto, almeno mille volte… Guardando lui riaffiorò il fascino verso la vita sacerdotale, che Dio aveva seminato nel mio cuore sin da quando ero piccolo.

Ma il colpo di grazia avvenne a 18 anni. Finita la settimana di vacanza all’Alpe di Siusi, stavo per salire sul pullman che ci avrebbe riportati a Varese, pronto per una dormita colossale dopo cinque notti quasi insonni. Qualcosa, però, ci era sfuggito: tra partenze anticipate e arrivi ritardati, mancava un posto per il viaggio di ritorno.

Don Roberto mi fissò deciso: «Perché non partiamo?». «Ho sbagliato i conti, don, non c’è posto per uno». «Bel colpo. Adesso vieni tu in macchina con me… almeno mi fai compagnia».

Senza quasi accorgermi salii sulla sua Punto grigia – senza aria condizionata – e ci dirigemmo verso l’autostrada e la calda pianura. La macchina, però, invece di imboccare lo svincolo, andò dritta verso un paesino. Arrivammo in una fattoria. Lì comprò dei grossi speck e chiese quattro bottiglie della grappa migliore che avevano. Ma cosa stava facendo? Arrivati in macchina, mi diede i sacchetti in mano e disse: «Questi sono per te e per gli amici della segreteria, grazie per questi giorni!».

Con pazienza e senza alcuna pressione mi accompagnò nel cammino vocazionale fino alla fine del liceo. Qualche giorno prima di venire a Roma, mi chiese dove mi sarebbe piaciuto, una volta ordinato prete, andare in missione. Poi si corresse e disse: «in ogni caso sii un prete felice, altrimenti non vale la pena!».

Tommaso Pedroli

 

Il pensiero dominante

Ogni volta che guardo la mia storia provo un senso di gratitudine perché in essa il Signore ha voluto mettere qualcosa di sé. La somma di tutti gli episodi e di tutte le tappe non produce necessariamente la vocazione, né la dimostra, perché essa fiorisce come un dono gratuito di Dio.

Studiando ingegneria meccanica avevo imparato che ogni fenomeno può essere spiegato e dimostrato; o che per lo meno si può cercare di indagarlo perché si sa che certe cause producono certi effetti.

Non è così per la vocazione. L’ho capito dopo che, per molto tempo, avevo cercato di dimostrare al Signore che il mio cammino era un altro: pensavo ad una famiglia, un buon lavoro, dei figli, tanti amici. Non mi sembrava male, e soprattutto lo ritenevo l’esito normale di venticinque anni ordinati e cristiani, vissuti tra l’oratorio di un piccolo paese e la Milano dell’università. La scuola frequentata con diligenza, insieme agli amici che erano gli stessi del catechismo e delle partite a calcio. Poi il liceo e l’università fatta per bene.

Quando mi trasferii in Inghilterra per preparare la tesi, pensai finalmente di aver composto tutti i pezzi: una serie di prove che, messe insieme, bastavano a indicare un destino come lo immaginavo io. In realtà, volevo solo usarle per far tacere un pensiero dominante che mi accompagna da quando ero piccolo e che non volevo riconoscere: dare a Dio tutta la vita per sempre e senza riserve. Un pensiero che mi affascinava e allo stesso tempo mi spaventava per la sua radicalità, e che cercavo quindi di raffreddare. Ma tornava a dominare in certi momenti, alimentandosi della vita dei padri e degli amici che ho incontrato. Di fronte a loro si faceva sentire con indiscrezione. Di fronte alla fede dei miei genitori e alla carità di mia nonna; di fronte al parroco con il quale sono cresciuto, che ha dato la sua vita per noi e nel quale ho sempre ammirato l’amore per la Chiesa e per la realtà che parla di Dio e che parla di me. Di fronte agli amici del movimento che ho conosciuto al liceo e poi al Politecnico, con i quali il cristianesimo è diventato un’esperienza personale, anima dello studio e dell’amicizia.

Un pensiero dominante, quello di essere tutto di Dio, che ha sempre vissuto in me e che mi ha aspettato con pazienza. Un pensiero indimostrabile, eppure presente e sempre vivo, fedele, radicale come il fascino che irradiava. Un solo nemico si opponeva: il mio desiderio di avere tutto sotto controllo e di non perdere ciò che fino a quel momento avevo incontrato: dove avrei lasciato i miei amici? E il tempo speso per studiare ingegneria? A chi avrei voluto bene nella vita? A queste domande non sapevo rispondere.

A quasi venticinque anni e a pochi mesi dalla laurea ho ceduto, stanco di continuare ad oppormi. «Non mi hai mai abbandonato per un istante, sei sempre venuto a cercarmi. Mi hai sempre aspettato. Perché mi cerchi? In alcuni momenti ti sei acceso come un fuoco e mi hai fatto amare la vita. Io non lo so perché mi cerchi, però sono tuo, e, se mi vuoi, vengo con Te».

Per venticinque anni non ho saputo cosa desideravo veramente. L’ho scoperto solo quando mi sono abbandonato a quella presenza dominante e fedele. Guardo la mia storia con gratitudine: in essa il Signore non ha voluto dimostrare la sua presenza, ha semplicemente voluto stare con me. Egli mi chiama a essere sacerdote perché possa essere suo figlio.

Ruben Roncolato