Arrivano in tante, tantissime nella basilica di Sant’Ambrogio, sotto un bel sole, la mattina di sabato 2 maggio. E, d’altra parte, l’appuntamento ecclesiale e di festa è importante e atteso. Sono le consacrate che si ritrovano per la celebrazione eucaristica presieduta dal Vicario generale, monsignor Mario Delpini, in occasione degli anniversari di circa duecento di loro, che ricordano i 15, 25, 50 e 60 anni di Professione religiosa. È il modo con cui la Chiesa di Milano dice il suo grazie corale – saranno poi tanti i festeggiamenti, nel pomeriggio e nei prossimi giorni, nelle singole Comunità e parrocchie di ciascuna – per un servizio tanto prezioso quanto necessario oggi nella pastorale scolastica, sanitaria, formativa, di accompagnamento nelle situazioni di anzianità ed emarginazione, nella preghiera di tutte, vissuta pubblicamente o nei monasteri di clausura. «La Vita consacrata è un bene prezioso per tutte le comunità e nessuno, se non Dio solo, riesce a misurarne l’ampiezza», aveva, non a caso, scritto lo stesso Vicario generale in un messaggio loro indirizzato.
La “Rinnovazione dei voti”, l’accensione delle lampade da parte di alcune religiose, che comunicano la luce a tutta l’assemblea e alle festeggiate, esprimono a pieno e visibilmente il significato della rinnovata Consacrazione a Cristo e alla Chiesa come mistero di luce e di grazia. Insomma, gesti di bellezza e profondità cristiana, ancora più suggestivi e carichi di senso in questo anno dedicato alla Vita Consacrata.
La riflessione di Delpini parte dalla Lettura degli Atti degli Apostoli al capitolo 12: «Facciamo l’elogio della prontezza della serva di nome Rode. Per un giorno, per una volta, una serva ha una parte importante. Per una volta, una serva merita d’essere chiamata con il suo nome. Per una volta, si scrive quello che ha fatto una serva in un racconto destinato a essere raccontato nei secoli, per rendere famosa questa sera per i tempi a venire. Nient’altro che una serva. Forse così si sentono le festeggiate di oggi, donne che hanno scelto di servire, di fare della loro vita una dedizione senza clamore e senza splendore, essere solo serve quasi nascondendosi nel servizio, liete di non essere notate, e piuttosto d’essere utili, fiere non d’essere ringraziate, ma piuttosto di essere ritenute affidabili, persone su cui si può contare sempre, come sono le suore. Per un giorno, per una volta, siate anche voi nominate, siate anche voi famose».
La prontezza di Rode nel rispondere che è «segno di libertà», la sua premura di fronte a Pietro – «la prontezza è una forma di vigilanza, Rode veglia come in attesa: attua in questo la raccomandazione di Gesù che invita le vergini sagge a predisporsi per accogliere il suo ritorno» ., la vigilanza che «è frutto di quella spiritualità che non si chiude in casa, che non concentra tutta la sua attenzione sulle chiacchiere e le beghe, i divertimenti e le amicizie, i compiti da svolgere e gli spazi da occupare», diventano, così, i caratteri distintivi del servizio vero a Dio e ai fratelli.
La gioia stessa di Rode è emblema e via da seguire, suggerisce il Vicario generale: «È la verità della gioia cristiana, quella che viene da una annunciazione, non da una soddisfazione per un risultato conseguito, non dal compiacimento per le proprie doti o per gli elogi che si ricevono o per la popolarità di cui si gode, tutte gioie un po’ meschine e certo precarie. La gioia che viene da una annunciazione ha la profondità e la durata di colui che annuncia, di colui che bussa: se è il Signore che bussa, se è il Signore che chiama, allora la gioia dura per tutta la vita, allora avvolge tutt’intera la persona, come testimoniano le nostre sorelle che celebrano il loro giubileo, cioè fanno festa perché la gioia seminata in loro dalla vocazione originaria non si è spenta in tutti questi anni».
«Forse l’elogio della serva di nome Rode può essere anche un modo per esprimere gratitudine e apprezzamento alle festeggiate, perché nella loro vita si riconoscono tratti simili che meritano l’elogio, perché la loro testimonianza diventa parola benedetta e qualche volta rimprovero severo per noi consacrati mediocri. Facciamo dunque l’elogio della prontezza, cioè della libertà interiore e della vigilanza, e perciò dichiariamo di voler vincere la tentazione a restare impigliati in una eccessiva cura di noi stessi, in una distrazione troppo abituale che non aspetta più nessuno. Facciamo dunque l’elogio della gioia dell’annunciazione e perciò dichiariamo di volerci liberare dalla tentazione di cercare gioie troppo meschine e troppo precarie. Facciamo dunque l’elogio di quella scomoda eventualità di essere insultati, quando questo fosse il prezzo per scuotere la comunità da una tristezza troppo ristagnante, da una rassegnazione troppo grigia, da una preghiera troppo sfiduciata».