Appena nominato direttore del Centro Televisivo Vaticano, questa mattina – nella ricorrenza di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti -, monsignor Dario Edoardo Viganò ha presentato a Palazzo Isimbardi a Milano il suo nuovo libro, Il Vaticano II e la comunicazione. Una rinnovata storia tra Vangelo e società (Edizioni Paoline).
Per l’occasione si è svolto un dibattito tra l’autore, Philippe Chenaux (docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Università Lateranense e direttore del Centro Studi e Ricerche sul Concilio Vaticano II), Paolo Mieli (presidente Rcs Libri e già direttore de La Stampa e del Corriere della Sera), don Davide Milani (responsabile Comunicazione della Diocesi di Milano e portavoce del cardinale Angelo Scola), Pasquale Maria Cioffi (direttore del Settore Expo 2015, Moda, Eccellenze, Eventi della Provincia di Milano) e Aldo Grasso (docente all’Università Cattolica di Milano, giornalista e critico televisivo), moderati da Emilio Carelli (già direttore del canale SkyTG24).
Nel portare l’apprezzamento dell’Arcivescovo, Milani ha paragonato il volume a una di quelle strade che immettono in una metropoli, «un crocevia ordinato dove si scorre bene e si trovano tutte le direzioni, ma anche un lavoro di sintesi non riduttiva a proposito della Chiesa e della comunicazione». Carelli ha notato come il «radicale cambio di stile» ecclesiale nella stagione del Concilio venga mostrato nelle sue diverse sfaccettature, con importanti riflessi nel campo dei media.
Da storico appassionato, Mieli ha elogiato lo sguardo inedito gettato dal libro di monsignor Viganò alle vicende conciliari, con la giusta inquadratura del periodo (compreso il clima politico della distensione fra i due “blocchi” Ovest-Est grazie a Kennedy e Krusciov), che ha visto la felice coincidenza di fattori non prevedibili, né preordinabili, come la «retroguardia passata all’avanguardia» del mondo cattolico ai vertici della Rai di quel tempo («un modo di interpretare la società aperto e moderno»), la prosecuzione durante il papato di Paolo VI (figlio di un giornalista), in «un autentico big bang per l’informazione vaticana, ma anche per l’informazione tutta».
Dal canto suo Grasso ha rilevato come l’intero volume sia basato su un curioso paradosso: Giovanni XXIII, così lontano dalla modernità (tanto da diffidare della psicanalisi e delle automobili), ma capace di convocare il primo evento televisivo della storia italiana e diventare un’icona popolare di rilievo mondiale grazie al celeberrimo “Discorso alla Luna”, in chiusura della giornata inaugurale del Concilio nel 1962. Interessante anche il rilievo di come già con il sottovalutato decreto Inter Mirifica (1963) la Chiesa parli di «mezzi di comunicazione sociale» (cioè volti alla creazione di una comunità), anziché «di massa», come tanta parte della cultura continuò per decenni snobisticamente a considerare.
Chenaux ha ribadito quanto la questione della comunicazione, rispetto ai contenuti specifici, sia tutto sommato poco studiata, e ha rilevato che «il libro mescola efficacemente indagine storica, analisi sociologica e riflessione teologica». Già dopo Gutenberg la Chiesa aveva capito l’importanza della “buona stampa” e perfino il Sillabo (1864) riguardava i fini della modernità, non i mezzi della comunicazione moderna. Anche l’apertura della Radio Vaticana nel 1931 e i radiomessaggi natalizi durante la seconda guerra mondiale testimoniano come la Chiesa abbia sempre prestato attenzione agli strumenti della comunicazione. Cioffi ha infine rimarcato l’attenzione (ricambiata) ai giornalisti avviata proprio con il Concilio e la successiva apertura della Sala Stampa Vaticana nel 1966.
Rispondendo a una domanda proveniente dal folto pubblico intervenuto, monsignor Viganò ha ricordato come gli stessi padri conciliari presero confidenza con i media durante i tre anni dei lavori, imparando a cercare le parole per meglio tradurre nel concreto le scelte pastorali condivise nelle sessioni della Basilica. Anche la scelta di affidare la gestione organizzativa preparatoria alla Segreteria di Stato (referente delle Chiese locali) anziché al Sant’Uffizio (oggi Congregazione per la Dottrina della Fede) come nei precedenti Concili, risultò chiarificatrice.