Il VII Incontro mondiale delle famiglie, che si terrà nella nostra Diocesi tra la fine di maggio e gli inizi di giugno, sta offrendo da mesi a molte famiglie migranti l’occasione inedita di incontrarsi per riflettere sulla propria situazione, a diversi livelli.
Anzitutto quello dei rapporti strettamente parentali, vale a dire: delle relazioni fra coniugi, fra genitori e figli e dei legami – più o meno salvaguardati – col resto delle famiglie rimaste in patria o disseminate nel mondo. Si tratta indubbiamente dell’aspetto più sentito e sofferto: quasi tutti, infatti, lo mettono al primo posto nella scala dei valori e delle motivazioni per cui un giorno hanno deciso di partire: «per garantire una vita dignitosa ai nostri cari: un futuro migliore ai figli e una vecchiaia serena ai nonni».
Inevitabilmente però proprio tale scelta finisce per aggiungere nuovi problemi, che non di rado mettono in crisi la stabilità dei rapporti. La distanza fra i coniugi, per esempio, genera nel tempo un deficit di affetto, che a volte si tenta di colmare con nuove relazioni, più o meno stabili e riconosciute. Oppure, l’impossibilità a portare con sé i figli (almeno nei primi anni) e il conseguente affidamento ai nonni nei Paesi d’origine, mentre da un lato priva i genitori della gioia di vederli crescere e della possibilità di instaurare con loro un vero rapporto affettivo, dall’altro carica i nonni di responsabilità per la quale sono obiettivamente inadatti; anche a causa della rapida trasformazione sociale che apre a diverse possibili devianze.
Cionondimeno la situazione giovanile appare delicata anche quando i ragazzi hanno la possibilità di seguire le proprie famiglie. È la dura legge della seconda generazione, come s’è visto nel caso estremo delle banlieue francesi: di quei giovani cioè in cerca di appartenenza, non sentendosi più debitamente integrati nella comunità d’origine né ancora in quella d’accoglienza.
Tutto ciò ha una evidente ricaduta, sofferta, ma estremamente interessante, sulla fede. Quando, infatti, il migrante – sia esso asiatico, africano, latinoamericano o europeo dell’Est – s’interroga sulla propria situazione alla luce della Parola di Dio, scopre anzitutto che la condizione dell’homo viator è propria di ciascun credente. Non solo perché lo fu dei grandi patriarchi e del popolo eletto, ma perché costituisce una vera e propria strategia divina, che dall’incontro dei popoli e delle culture offre a tutti la possibilità di crescere e arricchirsi in umanità, cultura e fede. I singoli e le famiglie scoprono così di essere portatori di grandi valori e tradizioni e prendono coscienza di avere molto da offrire alle stesse società a cui hanno chiesto accoglienza.
È questo in sintesi il cammino che – secondo diverse modalità – stanno percorrendo da un anno le oltre venti comunità cattoliche migranti presenti in Diocesi, aiutandosi con lo strumento preparato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia e dalla Diocesi di Milano, La Famiglia: il lavoro e la festa. Cammino che prevede un primo incontro di condivisione domenica 29 gennaio, festa della Sacra Famiglia, presso la chiesa di Santo Stefano a Milano, sede della Cappellania generale dei migranti. Per l’occasione, don Giancarlo Quadri, responsabile diocesano della Pastorale dei migranti ha chiesto a ciascuna comunità una breve relazione sull’esperienza fatta, così che dal confronto possano nascere nuovi percorsi condivisi. Non solo in vista dell’Incontro Mondiale, ma anche per offrire un contributo, semplice ma originale, alla pastorale familiare della nostra Diocesi.