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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Intervista

«Con Francesco usciamo dai soliti schemi.
Comunichiamo con la vita»

Dialogo a tutto campo con monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei: dall’analisi sulla corruzione alla necessità di un nuovo welfare, da Firenze 2015 ai poveri, dall’8x1000 alle polemiche sul Papa

di Domenico DELLE FOGLIE Direttore del Sir

7 Gennaio 2015
Sacrofano 25-11-2014
Conferenza stampa di presentazione della nuova versione del programma "A Sua Immagine". Interverranno:

 Mons. Nunzio Galantino - Segretario Generale della CEI

Ph: Cristian Gennari/Siciliani

Dall’analisi sulla corruzione alla necessità di costruire un «Welfare di comunità». Su Firenze 2015: Le oltre 200 proposte delle diocesi non si fermano al vedere e al giudicare, ma vanno decisamente nella linea dell’agire. Sui poveri: «La Chiesa italiana deve sempre più efficacemente integrare la scelta per i poveri nella sua abituale presenza dentro la società stanca e disillusa di questo decennio di crisi economica». 8×1000: «A fronte di un miliardo di euro o poco più, la Chiesa cattolica restituisce in servizi e opportunità dieci volte tanto». Le polemiche sul Papa: «Non si fatica a cogliere perfino nella critica che si leva da parte di alcuni opinion maker alla figura del Papa una preoccupazione a monte che non è ecclesiale, ma politica». All’inizio del 2015 il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, ha accolto la richiesta del Servizio informazione religiosa di sottoporsi a una fitta serie di domande sul cammino che ci attende.

L’anno che ci siamo lasciati alle spalle è stato dominato dalla corruzione pubblica. Il Paese sembra rassegnato al peggio e soprattutto è forte la tentazione di accettare la corruzione come un dato di fatto, quasi si tratti di un elemento fondante del nostro carattere nazionale. È davvero così? E cosa può fare la comunità ecclesiale per invertire la rotta?
La corruzione è un problema che si sviluppa in tutte le democrazie, specie quelle in cui sono più forti gli squilibri sociali. Non parliamo poi dei sistemi totalitari dove il fenomeno è imperante. Cosa rivela questo stato di cose? Un deficit di controllo ma soprattutto, in ultima analisi, di responsabilità personale. Nel nostro Paese poi ci sono delle ragioni storiche che alimentano una mentalità anti-Stato per cui sembra che rubare alla collettività e non al singolo sia meno grave. Invece si tratta di una lesione gravissima al bene comune che tiene in piedi qualsiasi comunità e richiede una capacità di riconoscersi eredi, di aver costruito grazie anche ai sacrifici di altri, e dunque una gratitudine che diventa lealtà verso il bene comune e lealtà verso chi verrà dopo. L’individualismo, appiattito su un presente da sfruttare ha fatto perdere il senso del tempo e del legame tra le generazioni. In passato il cattolicesimo italiano ha inventato, peraltro in tempi di crisi, soluzioni geniali a gravi problemi sociali ed economici. Basterebbe pensare alla fine dell’Ottocento al sistema delle banche di credito cooperativo per rendersi conto che dalla fede vissuta nascono sempre gli anticorpi a quei fenomeni di dissoluzione del collante sociale che sono il terreno di coltura della corruzione.

Il tema della corruzione sembra lambire mondi sino a ieri considerati immuni e nei quali il non profit, anche di matrice cattolica, ha avuto e ha un ruolo importante. Secondo lo stile che fa di tutta l’erba un fascio, persino la Caritas è stata indebitamente associata agli scandali. Cosa può fare la Chiesa e cosa possono fare i cattolici per salvaguardare questo patrimonio civile?
Lucrare sui poveri, l’ho già detto e qui lo ripeto, è doppiamente colpevole. Al danno del furto in sé si aggiunge anche quello di derubare chi è più debole. Quel che è successo a Roma – ma che può succedere anche altrove – è grave ed inaccettabile anche se qualcuno vorrebbe derubricarlo a un fatto non equiparabile al fenomeno mafioso. Si tratta in ogni caso di un grave tradimento della fiducia dei cittadini, e di un fenomeno che sempre più è diventato sistema, piuttosto che deviazione di singoli. Ma ciò non suggerisce di smantellare il Welfare, al contrario richiama il dovere di garantirlo e tutelarlo contro i suoi stessi interpreti quando non sono all’altezza del compito. Se si mortificasse questo ambito che ha permesso ad una società ingessata e diseguale di intercettare sacche di povertà crescenti e di offrire risposte concrete a problemi molto spinosi, sarebbe un danno incalcolabile. Pensare ad esempio che i senza-tetto dormano comunque quando la colonnina del mercurio scende sotto lo zero come in questi primi giorni dell’anno è un autoinganno. Bisogna rafforzare le reti di solidarietà, ma con il rigore e la serietà di una legge che non deve essere mai il paravento a fenomeni di illegalità e di corruzione. Non possiamo permetterci di abbandonare al caso certe situazioni di degrado. I pericoli cui si andrebbe incontro sono ben superiori alle incognite della superficialità e della corruzione evidente di alcuni. Piuttosto, occorre forse ripensare il welfare in senso meno ‘paternalistico’, delegato a soggetti che con le realtà da sostenere hanno ben poco a che fare, e promuovere, sostenere, far crescere il welfare di comunità. In questo compito ‘maieutico’ la chiesa, che ha sempre promosso, in modo per lo più informale, le capacità delle comunità di includere, tutelare e anche valorizzare soprattutto i soggetti più deboli, deve aiutare a far crescere forme nuove di Welfare di Comunità, in grado di leggere dall’interno i bisogni, attivarsi e valorizzare e mettere in rete le risorse di umanità, competenza, iniziativa di cui i nostri territori continuano a essere ricchi. A proposito di Welfare, ripeto quanto ho più volte già detto. Un passaggio indispensabile da fare e che ha il sapore di una vera e propria conversione è quello di smettere di considerare il Welfare, come sta capitando da troppo tempo e sotto diverse latitudini, una spesa piuttosto che un investimento.

Nella direzione di una diversa consapevolezza della nostra identità nazionale, quale ruolo può rivestire il Convegno di Firenze, nell’autunno del 2015, su “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”?
Firenze 2015 è un appuntamento centrale per le nostre Chiese che si intende vivere all’insegna dell’esperienza e non dell’accademia. Se il termine ‘convegno’ resta in ossequio alla tradizione decennale degli ultimi 50 anni, non deve sfuggire che nel prossimo novembre c’è in ballo molto di più. A partire dal significato stesso della parola, che così come quello di molte altre è stato riportato alla sua radice originaria e più autentica: il con-venire, l’incontrarsi, per definire insieme i contorni di una Chiesa che vuole raccogliere seriamente e con fiducia il testimone della Evangelii gaudium. L’Esortazione apostolica di Francesco invita ad uscire dai soliti schemi, ad abbandonare le ricorrenti certezze di analisi, e a lasciarsi ispirare dal racconto di testimonianze capaci di comunicare, con la vita – che include anche le fragilità e le imperfezioni – la bellezza dell’umano. Le nostre diocesi hanno sorpreso tutti offrendo un ricco ventaglio di proposte e di esperienze concrete che abbandonano le sterili letture sociologiche sullo stato del Paese e cominciano a delineare possibili percorsi di impegno. Leggere sul sito di Firenze le oltre 200 proposte che vanno in questa direzione dimostra un esercizio di discernimento che non si ferma al vedere e al giudicare, ma va decisamente nella linea dell’agire. Penso che debba essere questa la cifra dell’appuntamento autunnale (9-13 novembre). Il che non garantisce cambiamenti immediati ma ci fa stare dentro una strada di fraternità, capace di riaccendere la fiducia e la speranza, troppo spesso mortificate persino da parte di chi dovrebbe alimentarle. Semplificherei questa via in tre passaggi. Anzitutto la gioia del Vangelo che abbandona i toni sconsolati del ‘bel tempo quando Berta filava’ e prende l’iniziativa, si coinvolge, accompagna, fruttifica e fa esperienza di gioia condivisa. C’è qui un crescendo di cambi mentali e psicologici che descrivono la necessaria conversione della pastorale. In secondo luogo, si tratta di mostrare la rilevanza sociale della fede perché l’incarnazione suggerisce di assumere i limiti umani, ma per farli superare da una comunità di persone che prendono le distanze dall’individualismo e dall’idolatria del denaro e che cooperano alla giustizia e alla pace sociali, in spirito di fraternità e di libertà filiale. In terzo luogo, si tratta di tornare all’essenziale che è pregare e lavorare. Sono queste due azioni che danno gusto e credibilità a tutta la Chiesa, come dimostra la crescente attenzione alla figura del Papa che non smette di fare l’una e l’altra cosa, che si alimentano a vicenda. Con stupefacente normalità.

È stato già detto che il percorso verso il convegno decennale dovrà avere le caratteristiche di un cammino sinodale. Ritiene che le Chiese italiane abbiano le risorse necessarie perché Firenze rappresenti un appuntamento sinodale che comporta inevitabilmente forme concrete di cambiamento delle prassi di Chiesa? Quali scelte si renderanno necessarie per essere al passo con la Chiesa di papa Francesco?
Penso che le Chiese che sono in Italia abbiano in dote una connaturale apertura alla dimensione di popolo che non si è mai attenuata anche quando si è prediletto la scelta movimentista. L’opzione per i gruppi va integrata dentro l’abituale cura del popolo che conosce livelli di appartenenza spesso impensati e a dispetto del crollo della fiducia verso le istituzioni del nostro Paese. In concreto, il cammino dovrà coinvolgere tutti a livello della Chiesa locale e si dovrà fare attenzione che i delegati siano l’espressione della realtà di oggi e non professionisti della convegnistica. Ciò che decide oggi è proprio la forza di esperienze dal basso: dall’educativo al sanitario, dal culturale all’economico, dalle dipendenze (droga, alcool…) alle emergenze (terremoti, alluvioni, crisi economica…) che aiutano a mostrare una comunità cristiana che contrasta le derive disumanizzanti e alza il livello di umanità. Non vorrei apparire – perché non lo sono – un denigratore delle analisi sociologiche, per altro di grande utilità. Ma mi piacerebbe dare più impatto e più forza decisionale a quelle forme di umanesimo mancato o tradito che abita le nostre strade attraverso storie di uomini e donne private della loro dignità perché senza lavoro, giovani che continuiamo a considerare ‘il futuro della società’ mortificando e anestetizzando le energie e i sogni che oggi hanno e nutrono.

Lei ritiene che la Chiesa italiana stia già assecondando la prospettiva della “Chiesa in uscita”, “povera e per i poveri”, così fortemente voluta dal Papa? Come rispondere a chi parla di ritardi e di resistenze?
Credo che la Chiesa italiana – da sempre e straordinariamente presente nella vita della gente comune – debba più efficacemente integrare la scelta per i poveri nella sua abituale presenza dentro la società stanca e disillusa di questo decennio di crisi economica. Non è una scelta a lato e comunque da aggiungere alle tante attenzioni che sul territorio si manifestano. È l’attenzione permanente da coltivare. È lo sguardo da attivare se si vuol avere della realtà una lettura non scontata e non riconducibile ai soliti schemi.

Nel cammino della Chiesa italiana per il 2015 si pone anche l’ostensione straordinaria della Sindone. Anche questo un tassello significativo per il “nuovo umanesimo”?
L’ostensione della Sindone per la sua rilevanza storica è certamente un momento ad alta densità simbolica. Ma vorrei dire che ogni Chiesa locale vive di analoghi momenti forti: se si volesse metterli tutti in fila ci si accorgerebbe che il nuovo umanesimo è già un enorme puzzle in cui si impara ad incarnare il Vangelo dentro ogni ambito dell’umano. Non c’è niente che sia umano che è estraneo al cristianesimo, diceva Paolo VI. La Chiesa italiana lo sa bene, ma ha bisogno di ritrovarlo nelle cose che sta vivendo oggi. Mi piacerebbe che in concomitanza con l’ostensione della Sindone e con gli atti di devozione che l’accompagnano, le nostre Chiese particolari ‘ostentassero’ davanti ai propri occhi e al proprio cuore le ferite di tanti poveri cristi e decidessero qualche atto di ‘devozione’ anche verso queste ferite, che fanno parte e sono le ferite della ‘carne sofferente di Cristo’, come ci dice Papa Francesco.

Veniamo ad alcuni punti controversi. Innanzitutto i rumors sempre più frequenti in tema di 8×1000. Non le saranno sfuggiti diversi segnali: interrogazioni parlamentari, inchieste giornalistiche, convegni giuridici. Tutti accomunati dall’accusa di “scarsa trasparenza” e miranti a un ridimensionamento del sistema. C’è persino una convergenza sulle proposte: ritocco della percentuale o assegnazione solo in base alle firme di adesione realmente raccolte, superando il sistema proporzionale. Come valuta questo iperattivismo?
In realtà, la Corte dei Conti aveva fatto cenno alla scarsa trasparenza dello Stato rispetto all’8×1000. Per quanto ci riguarda i dati sono pubblici non solo perché pubblicati sui maggiori quotidiani italiani e sul sito del Sovvenire ma perché la trasparenza è la chiave della fiducia. La fiducia di cui gode la Chiesa, nonostante i suoi limiti, nasce dal contatto diretto coi preti, le religiose, gli operatori della Caritas… Sono queste le prove di un impegno che non è stagionale, che non conosce distinzione di classe e che resiste alla crisi, anzi si accresce a dispetto delle risorse sempre più esigue. Mi piacerebbe che qualche giornalista solerte – e ce ne sono davvero tanti – cominciasse a ricercare e a far conoscere – numeri alla mano – quanto la Chiesa italiana restituisce in termini di servizi e di risposte a bisogni concreti, a fronte del gettito che le viene destinato liberamente e generosamente dai contribuenti. Le dò un numero, a fronte di un miliardo di euro o poco più, la Chiesa cattolica restituisce in servizi e opportunità dieci volte tanto. Capite? E poi, qualcuno – non so quanto in buona fede – continua a far finta di non sapere che quanto fa la Caritas, veri e propri miracoli, viene fatto grazie ai fondi dell’8×1000.

Nel 2015 è probabile che il legislatore italiano, dopo aver varato il divorzio “brevissimo”, metta mano ai temi sensibili: matrimonio omosessuale, adozione per le coppie omosessuali, fecondazione eterologa allargata alle coppie omosessuali, legge sul fine vita o disciplina dell’eutanasia. Come pensa debba comportarsi la Chiesa italiana dinanzi alle scelte del legislatore?
La Chiesa vivrà nel prossimo anno la vicenda conclusiva del Sinodo che è stata convocato da Papa Francesco per rimettere al centro la famiglia. La scelta dice la logica che ispira la Chiesa. Non partire dall’individuo, ma cogliere la persona all’interno delle sue relazioni vitali. Questa non è una visione ideologica ma una esperienza semplice e concreta che vede nell’incontro di un uomo e di una donna la possibilità di generare nuova vita. La Chiesa continua la sua testimonianza ascoltando le sofferenze e i traumi di una società che per quanto adulta è spesso ripiegata sulle sue ferite. E non si lascia impressionare dalle leggi perché l’ethos più profondo deve essere educato e rappresenta l’istanza ultima di valutazione.

Fermi restando l’esempio del Papa, il protagonismo dei vescovi e dei media Cei, la testimonianza dei “preti di strada”, in questa stagione i cattolici italiani non sembrano brillare per partecipazione al discorso pubblico. Cosa è accaduto? Perché tanti silenzi?
Non credo che i cattolici siano silenti. Trovo anzi che grazie ai nuovi linguaggi digitali siano cresciuti i luoghi di confronto e di analisi. Il punto è che il limite dei cattolici è di farsi arruolare – talvolta e spero in buona fede – da una parte o dall’altra finendo con il diventare megafoni di posizioni politiche precostituite. Non si fatica a cogliere perfino nella critica che si leva da parte di alcuni opinion maker alla figura del Papa una preoccupazione a monte che non è ecclesiale, ma politica. Alla fine si finisce per essere sempre debitori di categorie estranee al Vangelo e per fare il gioco di altri, che ben poco hanno a cuore l’umano. Mi auguro che ci si possa serenamente confrontare sulle sfide del presente, senza scomunicarsi a vicenda. Pietro e la sua autorità al servizio dell’unità farà il resto. Senza che ci sia necessariamente qualcuno che voglia fare il papalino… più del Papa al punto da decidere dove dovrebbe collocarsi e perfino che cosa dovrebbe dire”.

Cosa si augura per la Chiesa italiana nel 2015? Quale augurio si sente di rivolgere al popolo italiano?
Mi auguro che ciascun membro della Chiesa cresca nell’esperienza personale di gustare l’amicizia e il messaggio di Gesù Cristo. Per giungere a questa conclusione: non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non averlo conosciuto, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione. Così mi sento di augurare alla Chiesa italiana sulla scorta di Evangelii gaudium (266).