Una striscia di terra tra Nigeria e Togo affacciata sul golfo di Guinea. Un tempo era Dahomey, regno sanguinario e religiosità fatta di riti ancestrali, divinità come il pitone e culla del voodoo; terra che ha vissuto il dramma della schiavitù, di uomini e donne costretti in catene a percorrere le strade di Ouidha, e attraversare la porta del non ritorno. Terra in cui il cristianesimo è giunto 150 anni fa con i primi missionari. Colonia francese fino al 1960, teatro di colpi di Stato, undici presidenti, cinque Costituzioni fino all’avvento, sempre con un putsch, di Mathieu Kérékou, il “camaleonte” come veniva chiamato per la sua capacità di adattamento: instaura un regime marxista e resterà al potere dal 1972 al 1990. Anno in cui inizia la transizione democratica, che vede coinvolto l’arcivescovo di Cotonou, Isidore de Souza: avrà un ruolo “politico” come presidente della Conferenza nazionale, chiamata a salvare il Paese dal baratro della guerra civile e della crisi certo politica, ma soprattutto economica e finanziaria in cui si trovava il Benin e a traghettare il Paese verso la democrazia.
È a questo Paese con la sua democrazia certo non perfetta, ma punto di riferimento nel tormentato panorama africano, con la sua capacità di far convivere realtà differenti, religioni ancestrali e cristianesimo, etnie e gruppi diversi, che Benedetto XVI si è rivolto nel suo secondo viaggio in Africa. L’occasione, la consegna dell’Esortazione post sinodale Africae munus, cioè l’impegno dell’Africa. È un Papa che parla all’intero continente, con le sue contraddizioni e con le sue grandi potenzialità. Parla di una fede che ha il volto di Cristo, «giudice ultimo della nostra vita». E che, a sua volta, ha voluto prendere il volto «di quanti hanno fame e sete, degli stranieri, di quanti sono nudi, malati o prigionieri, di tutte le persone che soffrono o sono messe da parte». Noi, a nostra volta, saremo giudicati dal comportamento che avremo nei loro confronti e, dunque, «nei confronti di Gesù stesso».
Il Papa celebra la messa nello stadio dell’amicizia di Cotonou sotto un sole caldissimo, liturgia che vive dei canti, della gioia e dei ritmi tipici di queste latitudini. Dice: «Il figlio di Dio è diventato uomo, ha condiviso la nostra esistenza, sino nei dettagli più concreti, facendosi il servo del più piccolo dei suoi fratelli». Un re «sconcertante» perché, afferma Benedetto XVI, noi siamo abituati ai segni della regalità «nel successo, nella potenza, nel denaro o nel potere» e «facciamo fatica ad accettare un re il cui trono è una croce».
Ed ecco la diversità che il Papa esalta: «Regnare è servire»; è essere attenti al grido del povero, del debole, dell’emarginato. Nel mondo, molti sono coloro la cui fede è debole, e «la cui mentalità, le abitudini, il modo di vivere ignorano la realtà del Vangelo»0, e pensano che la realtà ultima, lo scopo ultimo della vita umana sia «la ricerca di un benessere egoista, del guadagno facile o del potere».
Cosa ci dice, dunque, il Papa in questa domenica trascorsa lontano dal Vaticano, in una terra che più volte ha chiamato continente della speranza? Ci parla di una fede che sconvolge gli equilibri umani, di un giudizio finale che si gioca nella serietà della vita presente, di un Cristo che ci libera da questo vecchio mondo, «vincitore di tutte le nostre paure, di ogni miseria»; paure «che ci tengono prigionieri e ci impediscono di vivere liberi e lieti». E che ci fa entrare «in un mondo nuovo, un mondo in cui la giustizia e la verità non sono una parodia; un mondo di libertà interiore e di pace con noi stessi, con gli altri e con Dio».
Il pensiero del Papa va quindi a «tutte le persone che soffrono, ai malati, a quanti sono colpiti dall’Aids o da altre malattie, a tutti i dimenticati della società» e li invita ad avere coraggio. Perché Gesù ha voluto prendere il volto proprio dei più piccoli, anche dei malati, «ha voluto condividere la vostra sofferenza – dice il Papa – e riconoscere in voi dei fratelli e delle sorelle, per liberarli da ogni male, da ogni sofferenza». Ogni malato, ogni povero, afferma ancora Benedetto XVI, «merita il nostro rispetto e il nostro amore, perché attraverso di lui Dio ci indica la via verso il cielo». Già, perché è proprio lui, il Cristo Re dell’Universo, che «rimuove tutto ciò che ostacola la riconciliazione, la giustizia e la pace»; mediante la croce «abbatte i muri della divisione, ci riconcilia gli uni con gli altri e con il Padre». Solo noi, afferma infine il Papa, «possiamo impedirgli di regnare su noi stessi e, di conseguenza, rendere difficile la sua signoria sulla famiglia, sulla società e sulla storia».