Un vescovo capace di farsi ascoltare anche da chi non entrava in chiesa. Un pastore divenuto punto di riferimento per molti che non lo avevano mai incontrato di persona. Nelle ore che seguono la scomparsa del card. Carlo Maria Martini colpisce l’ampiezza del cordoglio e il fatto che a piangere il presule siano persone appartenenti alla Chiesa ma anche altre che si definiscono non cristiane o non credenti. Qual è la ragione? Alcuni interventi degli ultimi anni potrebbero far pensare alla sintonia su tematiche che stanno a cuore a tanti. Va però ricordato come negli anni del suo ministero episcopale a Milano Martini sia stato ascoltato e apprezzato anche dai fedeli semplici. Il motivo di questa efficacia comunicativa stava probabilmente in due fattori: l’attenzione a proporre la parola di Dio in modo accessibile, la capacità di farsi percepire in sintonia con i problemi di chi lo ascoltava. Due elementi fra loro non alternativi: piuttosto le facce di una stessa medaglia, le componenti di una stessa figura, quella dell’annunciatore del Vangelo per l’oggi. Cui si può aggiungere la coerenza tra il discorso e la vita, cioè il fatto che nel Martini predicatore, catechista, conferenziere… molti hanno riconosciuto un vero testimone di Cristo.
Il lettore della Parola
Anzitutto la parola di Dio. Anche quando non teneva omelie vere e proprie, il cardinale Martini era solito partire da una pagina biblica, utilizzando un versetto o un’immagine come “icona” alla luce della quale lasciarsi illuminare per trattare l’oggetto del discorso. A maggior ragione nella predicazione liturgica, che di natura sua è chiamata a farsi eco delle letture proclamate.
Molti hanno ascoltato per la prima volta Martini annunciare il vangelo dopo la sua nomina episcopale e il suo arrivo a Milano nel 1980. Ma questo è solo il secondo periodo della sua predicazione. Il biblista gesuita era stato preparato al ministero di vescovo dall’esperienza di docente e da quella di guida di ritiri ed esercizi spirituali (nel 1978 predicò davanti al Papa, in Vaticano). Con una innovazione significativa rispetto al metodo ignaziano: in luogo del semplice richiamo ad alcuni episodi scritturistici, egli proponeva ampi itinerari e testi biblici, affrontati avvalendosi del metodo monastico della lectio divina. Un metodo semplificato e adattato per l’oggi, ma in ogni caso capace di far compiere un autentico cammino spirituale a partire dalla Parola.
Fin dalla sua seconda lettera pastorale (In principio la Parola, 1981), l’Arcivescovo insegnava che per annunciare la buona notizia occorre «manifestare un’accoglienza di essa maturata a lungo nel cuore e coltivata incessantemente nel quotidiano cammino della fede». E ai sacerdoti ripeteva che di fronte a un testo biblico «io non devo farmi subito la domanda "che cosa dirò su questo testo?", ma "che cosa dice il testo?", perché spesso, ad una prima lettura, non lo capisco. Poi "che cosa dice a me?": e qui sono necessarie la riflessione e la preghiera, cioè meditare sul testo. Solo a partire da questa mia esperienza ho qualcosa da dire alla gente».
L’interlocutore attento
E’ interessante non solo il fatto che Martini si sia riferito costantemente alla Bibbia, ma il modo in cui egli ha attuato tale riferimento. Lo studioso professionista – e studioso di critica testuale, il settore più tecnico delle scienze bibliche – proponeva i testi biblici dando all’uditore la possibilità di trovarcisi come in un paese familiare mediante l’impiego di alcuni espedienti di lettura: lo sguardo sui personaggi, l’attenzione alle loro azioni e ai loro atteggiamenti, l’identificazione delle parole-chiave del brano, la domanda relativa al possibile messaggio del testo in sé e "per noi". Passo passo, quasi senza accorgersene, il lettore veniva condotto a mettersi in gioco, scoprendo il fianco alla potenzialità che ha la divina Parola di trafiggere e convertire.
Spiegava l’allora Arcivescovo che è decisivo «evitare di rovesciare sulla gente nozioni, vocaboli, metodologie incomprensibili e di giocherellare su pochi concetti, magari con immagini un po’ affascinanti, che però non sono buona notizia». Martini cercava di far percepire le letture proclamate nell’assemblea ecclesiale come buona notizia per l’oggi. La predica come attualizzazione, dunque. Non nel senso che il predicatore debba far diventare comprensibile con artifici retorici una Parola altrimenti irrimediabilmente fissata nel passato, ma che egli è chiamato a mostrare come sia davvero "attuale" e "attiva" la Scrittura proclamata nella liturgia, in quanto «parola di Dio che opera efficacemente in voi che credete», come insegna san Paolo nella prima delle sue lettere (1Ts 1,13). E’ non è un caso che i maggiori predicatori del nostro tempo – Paolo VI, Martini, Benedetto XVI – si richiamino al paradigma dell’apostolo Paolo nel ripensare il loro essere servitori del vangelo.
Colpisce in questa linea un’acuta osservazione del presule. Parlando di alcuni grandi Padri della Chiesa, Martini notava che spesso possono apparire datati. Ma non si tratterebbe di un limite reale: «Sembrano datati a noi perché nel loro tempo risultavano attuali, capaci di parlare a chi allora li ascoltava». Anche il card. Martini è stato un predicatore del suo – del nostro – tempo, senza la pretesa di dir cose valide sempre e in ogni luogo, ma appunto per questo accolte dai contemporanei come annuncio, interrogazione, consolazione, insegnamento, richiamo… adeguato all’esistenza odierna.
Ecco allora il ricomporsi nel pastore ambrosiano delle apparenti contrapposizioni fra tradizione e contemporaneità, fra ascolto della Parola e attenzione ai bisogni di oggi, fra rivelazione e fede, fra vangelo e cultura, fra Chiesa e mondo. Quel rapporto intimo tra realtà e polarità fondamentali cui altri giungono a partire da prospettive filosofiche o teologiche, Martini lo aveva colto come studioso della Scrittura, come predicatore gesuita, come prete e vescovo chiamato a comunicare il vangelo ai fedeli.
Il testimone
Negli ultimi anni Martini si dedicò a incontri e ritiri al clero, alle risposte ai lettori dei giornali, a qualche breve intervento videoregistrato. La parola si affievoliva, e spiccavano sempre più il bel volto, gli occhi luminosi, il sorriso reso fisso dalla malattia. Fu la terza grande stagione della predicazione martiniana, dopo l’epoca degli esercizi spirituali e quella delle omelie in Duomo. Una stagione quasi senza parole, quasi senza uditorio fisico; eppure non senza sintonia con molti, credenti e non credenti. E’ capitato a Martini quello che era accaduto a Giovanni Paolo II, di cui alcuni scoprirono la grandezza quando il Papa sano, sportivo, in grado di girare il mondo, di comunicare in molte lingue, di cantare e parlare con voce forte, lasciò il posto a una anziana figura paterna, incurvata, irrigidita, bisognosa di sostegno. A tanti papa Wojtyla parlò dal seggio della sofferenza più che dalla cattedra pontificale.
Il cardinale Carlo Maria Martini sapeva bene che l’annunciatore comunica con la vita prima che con le parole. Lo aveva espresso in molte occasioni con lucidità, per esempio in un corso di esercizi pubblicato nel 1986, Il predicatore allo specchio: «Meditare sul predicatore – spiegava Martini – vuol dire meditare sull’autenticità della vita del prete, e poi anche della vita del cristiano, anzi della vita dell’uomo, di colui che ha raggiunto in se stesso quel grado di integrazione umana per cui, avendo un tesoro dentro, può trarne cose antiche e cose nuove».