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Ecumenismo

“Sognare la comunione, costruire il dialogo”

In corso a Chianciano la 47a Sessione di formazione del Sae. Parla il presidente Mario Gnocchi

di Rita SALERNO Redazione

26 Luglio 2010

“Sognare la comunione, costruire il dialogo” è il tema scelto dal Sae, Segretariato Attività Ecumeniche, per la 47a Sessione di formazione ecumenica che, come ogni anno, per cinque giorni riunisce addetti ai lavori e non a Chianciano Terme nel mese di luglio. Ai lavori, dedicati ai cento anni di speranza ecumenica, prendono parte tra gli altri il biblista Piero Stefani, la pastora valdese Letizia Tomassone e Amos Luzzatto, già presidente Ucei.
A Mario Gnocchi, presidente nazionale del Sae dal 2004, abbiamo chiesto quale è il contributo delle sessioni di formazione ecumenica al cammino in vista dell’unità. «Il campo d’impegno prioritario del Sae è l’ecumenismo inteso nel suo più specifico senso d’incontro e dialogo intercristiano, interconfessionale – spiega Gnocchi -. E la sessione di quest’anno, incentrata com’è nella memoria dei cent’anni del movimento ecumenico, privilegia necessariamente questo ambito specifico. Ci sarà anche un’apertura al dialogo interreligioso, soprattutto in relazione ai tre grandi monoteismi. Tale tematica sarà oggetto di una delle giornate dei lavori assembleari e di uno dei gruppi di studio. Ma, anche al di là di questi specifici momenti, l’attenzione all’orizzonte interreligioso sarà garantita come sempre dalla presenza di alcuni amici d’area non cristiana che fanno ormai parte della “famiglia” del Sae».

Di quale immagine si servirebbe oggi per delineare la situazione, da questo punto di vista?
Qualche tempo fa, quando, innanzi alle difficoltà insorte sulle vie del dialogo ecumenico, si cominciava a parlare di inverno o di gelata ecumenica, io talvolta rovesciavo l’immagine, e dicevo che stavamo vivendo le conseguenze del disgelo ecumenico. La vera stagione invernale, la vera gelata, era quella che avevamo alle spalle, quando ogni relazione era impedita dal ghiaccio che bloccava l’intero territorio. Ma è proprio qui che ora l’ecumenismo è messo alla prova, nella capacità di affrontare questi inciampi con realismo, ma senza disperazione, con lucidità critica ma senza rinunciare alla visione profetica e alla forza della speranza. Con la costanza dei piccoli passi e dei parziali avanzamenti, sapendo che ogni anche piccolo ostacolo sormontato riapre ed allarga l’orizzonte. Credo che qualcosa di simile, pur in contesto differente, si possa riferire alle relazioni interreligiose. Anche in questo caso stiamo vivendo un tempo di avvicinamenti, di contatti, di nuove possibilità di conoscenza e di confronto. Ma anche in questo caso, nella misura in cui il rapporto con l’altro passa dall’immagine ideale alla concretezza della realtà, ci si accorge che non è sempre facile – anzi talvolta è assai difficile – comprendersi, riconoscersi, accogliersi così come si è. E, come sempre in questi casi, all’impulso iniziale di apertura può seguire la tentazione di retrocedere e di rinchiudersi nei propri confini (la tentazione di una “identità” intesa in modo statico e rigido). Anche a questo proposito, dunque, stiamo percorrendo un crinale delicato, che richiede limpidezza di cuore e saldezza di mente. E soprattutto la forza della speranza.

Parafrasando il titolo della sessione 2010, la speranza può farsi realtà?
Io direi che la speranza è già realtà. La speranza infatti non è inerte aspettazione, ma tensione attiva. Chi spera non si affida all’incerta probabilità di eventi esterni, ma si mette in via verso una meta: la grande figura biblica della speranza è Abramo. Chi spera è già in cammino verso la realtà sperata, già ne tocca un lembo. E in questo senso la speranza illumina già il presente, ne trasfigura l’aspetto e il senso. Come ci insegna l’apostolo Paolo, si spera ciò che ancora non si vede (quanto è vero, nell’esperienza ecumenica!), ma «nella speranza noi siamo stati salvati», e perciò «attendiamo con perseveranza». In questa tensione, non priva di fatica ma anche fonte di intima gioia, vive chi ha accolto la vocazione ecumenica. “Sognare la comunione, costruire il dialogo” è il tema scelto dal Sae, Segretariato Attività Ecumeniche, per la 47a Sessione di formazione ecumenica che, come ogni anno, per cinque giorni riunisce addetti ai lavori e non a Chianciano Terme nel mese di luglio. Ai lavori, dedicati ai cento anni di speranza ecumenica, prendono parte tra gli altri il biblista Piero Stefani, la pastora valdese Letizia Tomassone e Amos Luzzatto, già presidente Ucei.A Mario Gnocchi, presidente nazionale del Sae dal 2004, abbiamo chiesto quale è il contributo delle sessioni di formazione ecumenica al cammino in vista dell’unità. «Il campo d’impegno prioritario del Sae è l’ecumenismo inteso nel suo più specifico senso d’incontro e dialogo intercristiano, interconfessionale – spiega Gnocchi -. E la sessione di quest’anno, incentrata com’è nella memoria dei cent’anni del movimento ecumenico, privilegia necessariamente questo ambito specifico. Ci sarà anche un’apertura al dialogo interreligioso, soprattutto in relazione ai tre grandi monoteismi. Tale tematica sarà oggetto di una delle giornate dei lavori assembleari e di uno dei gruppi di studio. Ma, anche al di là di questi specifici momenti, l’attenzione all’orizzonte interreligioso sarà garantita come sempre dalla presenza di alcuni amici d’area non cristiana che fanno ormai parte della “famiglia” del Sae».Di quale immagine si servirebbe oggi per delineare la situazione, da questo punto di vista?Qualche tempo fa, quando, innanzi alle difficoltà insorte sulle vie del dialogo ecumenico, si cominciava a parlare di inverno o di gelata ecumenica, io talvolta rovesciavo l’immagine, e dicevo che stavamo vivendo le conseguenze del disgelo ecumenico. La vera stagione invernale, la vera gelata, era quella che avevamo alle spalle, quando ogni relazione era impedita dal ghiaccio che bloccava l’intero territorio. Ma è proprio qui che ora l’ecumenismo è messo alla prova, nella capacità di affrontare questi inciampi con realismo, ma senza disperazione, con lucidità critica ma senza rinunciare alla visione profetica e alla forza della speranza. Con la costanza dei piccoli passi e dei parziali avanzamenti, sapendo che ogni anche piccolo ostacolo sormontato riapre ed allarga l’orizzonte. Credo che qualcosa di simile, pur in contesto differente, si possa riferire alle relazioni interreligiose. Anche in questo caso stiamo vivendo un tempo di avvicinamenti, di contatti, di nuove possibilità di conoscenza e di confronto. Ma anche in questo caso, nella misura in cui il rapporto con l’altro passa dall’immagine ideale alla concretezza della realtà, ci si accorge che non è sempre facile – anzi talvolta è assai difficile – comprendersi, riconoscersi, accogliersi così come si è. E, come sempre in questi casi, all’impulso iniziale di apertura può seguire la tentazione di retrocedere e di rinchiudersi nei propri confini (la tentazione di una “identità” intesa in modo statico e rigido). Anche a questo proposito, dunque, stiamo percorrendo un crinale delicato, che richiede limpidezza di cuore e saldezza di mente. E soprattutto la forza della speranza.Parafrasando il titolo della sessione 2010, la speranza può farsi realtà?Io direi che la speranza è già realtà. La speranza infatti non è inerte aspettazione, ma tensione attiva. Chi spera non si affida all’incerta probabilità di eventi esterni, ma si mette in via verso una meta: la grande figura biblica della speranza è Abramo. Chi spera è già in cammino verso la realtà sperata, già ne tocca un lembo. E in questo senso la speranza illumina già il presente, ne trasfigura l’aspetto e il senso. Come ci insegna l’apostolo Paolo, si spera ciò che ancora non si vede (quanto è vero, nell’esperienza ecumenica!), ma «nella speranza noi siamo stati salvati», e perciò «attendiamo con perseveranza». In questa tensione, non priva di fatica ma anche fonte di intima gioia, vive chi ha accolto la vocazione ecumenica.