Sirio 26-29 marzo 2024
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Diocesi, cantiere aperto: tante sfide, una strategia

Cinque gli ambiti di lavoro su cui è impegnata la Chiesa ambrosiana. L'obiettivo, spiega il Vicario generale monsignor Redaelli, è essere consapevoli che «il Vangelo è annuncio di grazia per l'umanità di oggi e di un "domani" che è qui dietro l'angolo, anzi è già presente»

14 Ottobre 2008

14/10/2008

di Pino NARDI

«Benvenuti nel cantiere aperto della nostra diocesi». Così in diverse occasioni il cardinale Tettamanzi ha definito la nuova stagione aperta nella Chiesa ambrosiana, «un momento di speranza, di trepidazione, anche di fatica, ma soprattutto di lavoro», secondo il vicario generale, monsignor Carlo Redaelli.

Parlando lo scorso 30 settembre, in occasione delle destinazioni dei nuovi diaconi, ha tratteggiato i contorni del cantiere. «Perché è stato aperto? Che ci sia un cantiere aperto è abbastanza evidente. Anzi, forse bisognerebbe parlare di più cantieri aperti – sottolinea il vicario generale -. Ne cito alcuni: la pastorale di insieme e le comunità pastorali (sono già 56), l’inserimento progressivo nel ministero di diaconi e di preti novelli, il ripensamento della pastorale giovanile, la missionarietà con i due percorsi pastorali triennali, la sperimentazione dell’iniziazione cristiana (con, tra l’altro, la sottolineatura della pastorale battesimale), la riforma del rito ambrosiano con il nuovo Lezionario, il rinnovato impegno per l’insegnamento della religione, il potenziamento della presenza di preti, laici, famiglie fidei donum in diverse Chiese del mondo, la visita pastorale decanale».

Inoltre, l’Assemblea sinodale del Clero sarà un luogo dove il desiderio della missione verrà condiviso, dove si ascolterà la Parola e ci si ascolterà a vicenda per capire come essere testimoni oggi.

I fronti aperti sono molteplici e secondo alcuni si sta facendo troppo in fretta. «Queste sono le obiezioni che si sentono e, spesso, provengono curiosamente da chi non è ancora coinvolto in qualche cantiere – risponde con chiarezza monsignor Redaelli. – Il perché ha una spiegazione molto chiara: l’urgenza della missione. Si tratta cioè della consapevolezza che il Vangelo è annuncio di grazia per l’umanità di oggi e di domani e che noi ne abbiamo la responsabilità non solo per l’oggi ma, appunto, per il domani. Un “domani” che è qui dietro l’angolo, anzi è già presente ed esige, affinché possiamo essere fedeli al Vangelo, di fare alcune scelte e di intraprendere strade nuove. Certo, nella fedeltà al passato – e l’impressione è che non siamo abbastanza consapevoli della ricchezza di fede e di vita cristiana che ci viene dalle precedenti generazioni -, ma con il coraggio del futuro. Ben sapendo che certe decisioni o si prendono oggi o domani sarà tardi».

Una Chiesa che guarda alla società di oggi in profonda trasformazione. Diversi dati sono emblematici. Già da alcuni anni la partecipazione all’Eucaristia è del 21%; solo un milione su più di 5 milioni di abitanti va regolarmente a Messa; sono circa 400 mila gli stranieri, la cui appartenenza religiosa in percentuale più forte a Milano e provincia è costituita da cattolici (almeno 120 mila); in città sono 9.057 i diciottenni, di cui 1.568 stranieri: più del 17% («cosa fanno i nostri oratori per loro?», si domanda Redaelli). Inoltre uno su tre (2.645) vive con un solo genitore, perché figli di divorziati e di separati.

Di fronte a questo scenario i preti saranno sempre meno e andranno maggiormente coinvolti i laici. Ma Redaelli precisa: «Più volte, nei mesi scorsi, girando a presentare nelle zone le varie bozze circa la pastorale giovanile, mi è stato fatto presente che, va bene non incentrare più tutto sul prete e valorizzare i laici, ma anche i laici disponibili sono pochi. Dobbiamo allora aprire i cantieri con meno operai e tecnici: una bella sfida».

Come la diocesi sta rispondendo? Esistono «tante comunità che stanno lavorando con decisione, con generosità e anche con gioia – afferma il vicario generale -. Ma, magari nello stesso decanato, c’è anche gente scoraggiata e affaticata. Per esempio comunità che, senza colpa di nessuno, hanno visto anticipare necessariamente alcune scelte per cui non si sentivano preparate e che, dopo le inevitabili paure e i comprensibili mugugni degli inizi, non hanno però il coraggio di accoglierle e farle proprie positivamente. O anche alcuni sacerdoti, stanchi, carichi di lavoro, un po’ ripiegati su se stessi, o solo preoccupati perché è stato loro richiesto di rimettersi in gioco proprio quando i loro coetanei stanno godendosi la pensione. O persino diaconi un po’ delusi per quanto è stato loro chiesto e incerti sulla loro identità. O religiose che mestamente stanno progressivamente abbandonando le parrocchie e chiudendo le loro attività».

E Redaelli usa anche un efficace esempio per spiegare ulteriormente: «Vorrei accennare a un motivo di disagio di cui forse non si ha la consapevolezza e che, però, può spiegare forse molte cose. Tento di farlo con un’immagine, sempre riferita al cantiere. È molto diverso lavorare in un cantiere, in mezzo al fango, esposti alle intemperie, con ritmi molto intensi quando si abita in una baracca e si ha voglia di vedere finalmente la propria casa nuova o, al contrario, quando si abita in un palazzo antico, magari un po’ conciato, ma che costituisce pur sempre un riparo che sembra caldo e sicuro. Chi te lo fa fare di uscire nel cantiere, un cantiere che vuole restaurare lo stesso palazzo, ma anche costruire ambienti nuovi in risposta alle nuove esigenze? Non è meglio accontentarsi di qualche piccola riparazione e, se è il caso, di chiudere qualche stanza se non c’è personale sufficiente per la manutenzione e la pulizia e magari lasciare che i pesanti e impolverati tendaggi alle finestre impediscano di vedere quelli di fuori in modo da potersi chiudere al sicuro nella propria stanza, tra le proprie care cose di una volta? Non so, ma forse un po’ del disagio di oggi si spiega proprio con la paura a uscire dal palazzo: perché affrontare il nuovo e l’ignoto se comunque un palazzo c’è?».