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Combattere la povertà per costruire una pace vera

Si chiama "Madre Tierra" il progetto della Caritas Ambrosiana proposto alla diocesi e finalizzato all'insediamento di cento famiglie su ettari di terra in Bolivia da rendere coltivabili

30 Dicembre 2008

30/12/2008

di Pino NARDI

“Combattere la povertà, costruire la pace” è il monito di Benedetto XVI per la Giornata della Pace 2009. Sono tanti i fronti nel mondo nei quali si opera per dare dignità ai popoli più poveri, a costruirsi un futuro. Uno di questi è la Bolivia. Qui la Caritas Ambrosiana appoggia il progetto “Madre Tierra”, proposto al sostegno della diocesi di Milano nel mese di gennaio. Ne parliamo con Davide Boniardi, responsabile per l’America Latina della Caritas.

Qual è il problema della Bolivia?
Nella zona andina vivono i due-terzi della popolazione boliviana (circa 6 milioni) e hanno a disposizione solo 5 milioni di ettari produttivi (il 7% del totale). Gli abitanti dei villaggi sono costretti a coltivare piccoli appezzamenti che hanno ereditato dai propri genitori, a loro volta da nonni e bisnonni; diventano così sempre più piccoli suddividendoli tra figli e nipoti. Inoltre sono terre sulle montagne, a 3-4 mila metri, rocciose, nella maggior parte improduttive. Da qui stanno perciò emigrando prima nelle grandi città (in condizioni di estrema marginalità) e poi anche all’estero (Usa, Spagna, Italia, in particolare a Milano e Bergamo). Perciò il Movimento dei senza terra, organizzazione nonviolenta, sensibilizzando le comunità rurali, cerca strade alternative basandosi sulla legge di riforma agraria del ’90, sulla nuova Costituzione e sulla Lettera pastorale del 2000 per il Giubileo. La rivendicazione diventa una proposta progettuale: trasferirsi nelle terre dell’Est, dove vive il 30% della popolazione sul 93% dei terreni coltivabili, che vengono inutilizzati e spesso detenuti in maniera illegale da grandi allevatori e da latifondisti.

Con quali obiettivi?
Il Movimento dei senza terra, che si rifà in parte all’esperienza brasiliana, è giovane. Ha otto anni, è organizzato a livello nazionale, ma è presente soprattutto nelle regioni andine e rivendica l’accesso alla terra per le popolazioni che non l’hanno. Propone la sensibilizzazione sul diritto alla terra, prepara le persone che sono disponibili a trasferirsi dalla zona alta in quella orientale, formandole sulle coltivazioni e il nuovo stile di vita che affronteranno passando dai quasi “sottozero” dell’occidente andino al clima molto umido e caldo della pianura.

Qual è il ruolo della Chiesa?
La Chiesa boliviana nel 2000 ha pubblicato la Lettera pastorale Terra, madre feconda per tutti: il messaggio è che la terra è un bene comune e quindi deve compiere questa funzione socialmente utile che la Costituzione e la legge di riforma agraria ribadiscono, ma che rimangono spesso lettera morta. C’è perciò un accompagnamento sia formativo sia sociale-produttivo al Movimento, in particolare della diocesi di Cochabamba. L’affiancamento serve anche a dare legittimità e credibilità al Movimento, perché nel Paese viene visto male sia dai capitalisti sia a volte dal governo.

Il vostro appoggio come nasce?
Un anno fa a novembre ci siamo incontrati con il direttore della Caritas locale, la Commissione dei conflitti di Cochabamba, il vescovo monsignor Tito Solari, il Movimento dei senza terra, i rappresentanti di alcuni dipartimenti e poi con il vice-ministro della Terra che ha concesso a cento famiglie della zona di trasferirsi nella regione fertile dell’Est, dove esiste già una comunità. Li abbiamo visitati 2-3 volte. Ormai da tre anni abbiamo lì i nostri ragazzi in servizio civile. Oggi ci sono Martina e Mariella: fra i loro compiti c’è anche quello di seguire il processo di trasferimento delle cento famiglie.

In cosa consiste il progetto?
Lo Stato ha riconosciuto loro 8 mila ettari di terra. Le cento famiglie non andranno tutte insieme in questa foresta ad abitare: il 27 novembre si sono trasferiti i primi 26 capi-famiglia che si affiancheranno alla comunità. Sono necessarie motoseghe per tagliare gli alberi per costruire le case, che vengono completate con fogli di palme, una struttura intrecciata di rami, arbusti e terra. Inizieranno con case comunitarie e cucine. Secondo, la perforazione dei pozzi per l’acqua potabile e un sistema di collegamento nei punti cardine del villaggio. Terzo, la coltivazione: inizieranno tra l’altro con mais e riso. Il ministero si dovrebbe impegnare con l’aiuto alimentare iniziale e con le infrastrutture come le strade. Poi costruiranno la scuola e un “posto di salute”. La prima fase è l’insediamento urbanistico e agricolo: coltiveranno per il sostentamento della famiglia, che verrà ricongiunta. La seconda fase: un progetto di sviluppo sostenibile per diventare autosufficienti. Questa è una terra a vocazione forestale e allevamento bovino. Sarà un processo di anni. In questa prima fase come Caritas Ambrosiana siamo impegnati per il pozzo, la formazione, le carriole, le falci, tutto ciò che serve per insediarsi.

Com’è la situazione nel Paese?
Di forte tensione sociale. Fatti simili sono stati osteggiati dalle guardie armate dei latifondisti e qualche mese fa sono morti 18 contadini. Per la comunità che vanno a costituire, la terra era in possesso di un latifondista che aveva la sua guardia armata. Adesso l’ha venduta, ma cerca di minacciare la “Comunità 11 luglio” che sta ospitando i 26.

È importante tenere accesi i riflettori internazionali…
Certo. L’accompagnamento sia della diocesi di Cochabamba sia di una internazionale come la nostra offre un sostegno: il fatto che qualcuno da fuori li sta aiutando dà loro più forza, li tutela dal punto di vista fisico non solo economico.

Queste iniziative possono cambiare davvero la realtà?
Non si risolverà il problema della terra. Però è un segnale: che è una via percorribile legare quello che le leggi, la giustizia dell’uomo e di Dio dicono. Cercare un’esperienza positiva che possa poi essere duplicata e dare una condizione più stabile di dignità e di sviluppo.