Quando Mario Draghi dichiara, come ha fatto in un’intervista su Le monde, che «l’euro è irreversibile», afferma un concetto nel quale crede fermamente, per il quale opera concretamente, senza peraltro sottovalutare gli ostacoli e le incertezze che ruotano attorno alla questione.
Il colloquio con l’autorevole quotidiano francese andrebbe però letto a ritroso. Nelle ultime righe infatti il presidente della Banca centrale europea, rispondendo alla domanda sulla moneta unica in pericolo, dichiara: «Alcuni analisti prefigurano scenari di esplosione dell’Eurozona, ma chi lo fa disconosce il capitale politico che i nostri dirigenti hanno investito in questa Unione, così come il sostegno degli europei». E qui arriva la frase pubblicata a caratteri cubitali in prima pagina nell’edizione del 21 luglio, rilanciata dalle agenzie e dai media di mezzo mondo: «L’euro è irreversibile». Draghi sa bene che alcuni politici, coi rispettivi governi, non stanno investendo energie sufficienti per far fronte alla crisi che attanaglia la moneta comunitaria e l’unione politica, pressati proprio dagli “europei”, ossia dalle opinioni pubbliche nazionali; le quali, trascinate dagli effetti della recessione, vorrebbero chiudere le porte di casa, mettendo per il momento da parte l’Europa e pensando maggiormente, o esclusivamente, agli interessi interni.
Quello del presidente dell’Eurotower sembra dunque più un indiretto richiamo alle responsabilità collettive dell’Ue – oltre che dell’Eurozona – di fronte a una sfida così ampia e profonda che nessun governo nazionale può affrontare da sé: né quello di Berlino, né quello di Parigi, né quello di Roma o di Madrid o di Nicosia.
Così, procedendo all’indietro, si giunge a un’altra domanda sulla permanenza di Atene nell’area dell’euro. «Noi preferiamo, senza alcun equivoco, che la Grecia rimanga nell’Eurozona. Ma la decisione – afferma Draghi – spetta al governo di Atene, che ha dichiarato il suo impegno e ora deve produrre i risultati». Qui il capo della Bce comincia a essere più chiaro: non basta fare affermazioni di principio, bisogna agire di conseguenza. E questo vale – anche se nell’intervista non lo si legge – sia per la Grecia che per la Spagna, fino a giungere all’Italia.
Ancora una retromarcia e si arriva al cuore dell’intervista. «A mio parere il movimento verso un’unione di bilancio, finanziaria e politica è inevitabile e condurrà a nuove entità sopranazionali». A cosa si riferisce l’economista italiano, stimato nel mondo? A una più coraggiosa, per quanto non scontata, integrazione politica a livello continentale, esattamente come vanno chiedendo da tempo, anche se con accenti diversi, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il premier italiano Mario Monti, il presidente della Commissione Ue, il portoghese José Manuel Barroso. L’intervistato parla di «trasferimento di sovranità che ne consegue». Draghi peraltro preferisce parlare, e lo dice esplicitamente, di ulteriore «condivisione» della sovranità in un quadro europeo. «In tempi di globalizzazione, è precisamente attraverso questa condivisione che ogni Paese ha le maggiori probabilità di salvaguardare la sua sovranità». Per concludere: «A lungo termine, l’euro dovrà essere fondato su una maggiore integrazione».
Draghi di fatto non pretende di avanzare una propria “ricetta”, che del resto non gli compete: per salvare la moneta e l’economia europee, e con esse la politica europea, la società europea, egli ricorda che bisogna puntare di nuovo sulla condivisione dei problemi, sulla ricerca di vie di uscita comuni che prevedano anche nuovi passi in avanti – istituzionali – dell’Unione europea.