Era un mercoledì, freddo e piovoso. Una cupezza quel giorno nella Milano oppressa dalla cappa, non solo di nebbia e smog, ma anche della violenza terroristica, che insanguinava le strade della metropoli. All’improvviso i colpi di pistola, alle spalle. Il corpo a terra di Walter Tobagi, 33 anni, inviato del Corriere della Sera, appena uscito di casa per andare in redazione. In quel 28 maggio 1980, 40 anni fa, veniva stroncata la vita di un uomo, di un padre e marito affettuoso, di un giornalista tutto d’un pezzo, vittima dell’odio cieco e vile del terrorismo rosso.
Tobagi ha rappresentato e rappresenta un modello di giornalismo libero e indipendente, attento a leggere i segni di una società in grande fermento e cambiamento. Una professione che rispetta l’uomo, curiosa di comprendere i fatti. «Poter capire e voler spiegare» era la sua concezione del giornalismo, fatta di rigore morale e onestà, di trasparenza e mitezza nei modi. Questo è stato Tobagi, fin dagli anni giovanili al liceo Parini di Milano, scrivendo per la mitica Zanzara. E poi cominciando a farsi le ossa professionalmente prima all’Avanti!, poi ad Avvenire, al Corriere d’informazione e dal 1972 al Corriere della Sera.
Un giovane giornalista che per il suo talento aveva bruciato tutte le tappe, diventando una delle firme di punta del primo quotidiano italiano. Si occupava in particolare di analizzare il fenomeno terroristico, senza pregiudizi ideologici, ma scavando nei fatti, nelle biografie di quella generazione di suoi coetanei che aveva deciso di sparare invece di dialogare. E così facendo li aveva messi a nudo: in fondo non erano «samurai invincibili». Scrivere queste parole non era affatto scontato in quegli anni bui, che avevano visto un crescendo di violenza culminata nel rapimento e nell’uccisione di Aldo Moro. Fino all’assassinio di Vittorio Bachelet, tre mesi prima dell’uccisione dello stesso Tobagi.
Questi, e purtroppo tanti altri nomi, non sono casuali. Sono stati colpiti sempre coloro che tessevano legami, in una realtà dilaniata dall’ideologia, che costruivano ponti nella politica e nella società. In una prospettiva riformista con lo scopo di consolidare il cammino democratico del Paese. E non è affatto un caso che molti di loro fossero credenti, pur con riferimenti politici differenti. Anche nel caso di Tobagi, cattolico fino in fondo, assiduo frequentatore e animatore nella parrocchia milanese di Santa Maria del Rosario (a lui è dedicato il Centro culturale che stava contribuendo a costruire pochi mesi prima dell’assassinio). E socialista. Scriveva nel 1964 su La Zanzara: «Il lavoro non è solo umiliazione e ricerca di glorie inutili e passeggere. Può esserlo solo per chi è troppo legato a interessi materialistici che non sanno elevarsi ad alcun nobile ideale. Ma per molti altri, per i più, il lavoro è un mezzo di redenzione e di elevamento. L’uomo trae dal lavoro la sua nobiltà. È il concetto cristiano. Il lavoro è castigo, certo, ma è castigo che nobilita». E poi più avanti: «Per questo l’unica alternativa alla civiltà di massa è un autentico socialismo cristiano. L’uomo riacquista intero il suo: il diritto e il dovere a vivere. Una personalità propria che lo distingue tra le altre “pecore matte”».
Un giornalista acuto e attento, curioso, capace di penetrare e guardare dove altri non guardavano. Oltre al terrorismo, Tobagi si era occupato molto dei temi del lavoro e del sindacato (a 30 anni era già presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti), difendendo sempre la libertà di informazione.
Un’eco si ritrova nelle parole che il cardinale Carlo Maria Martini ha pronunciato 10 anni fa per il trentesimo anniversario: «Penso che ricordare il sacrificio di Walter Tobagi sia doveroso. Perché non bisogna perdere la memoria degli uomini che sono stati esemplari per il loro impegno sociale e civile, che hanno saputo stimolare le coscienze a promuovere sempre il bene comune e per questo hanno pagato con la vita. Tale impegno Walter Tobagi lo esprimeva attraverso il suo lavoro di giornalista, aiutando a capire le complesse tensioni sociali di quel tempo, testimoniando il coraggio della verità, chiedendo con vigore l’impegno di tutti per una società più giusta. Il suo è un insegnamento che vale molto anche per l’oggi, quando appare sempre più necessario vincere le chiusure e le paure, riaffermare con chiarezza e vivere con coerenza i valori fondamentali del convivere civile: il rispetto dell’altro, la responsabilità della solidarietà, l’onestà, la libertà di parola e di espressione».