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Commento

Sulla soppressione delle feste?
Un ripensamento che fa riflettere

Il Governo ha ritirato il provvedimento, ma una riflessione ora si impone per capirne i motivi…

di Marco DOLDI

23 Luglio 2012

Nei giorni scorsi si è parlato dell’accorpamento di alcune festività civili e religiose, spostandone la ricorrenza alla domenica successiva. Il provvedimento riguardava 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, ma anche feste patronali. Poi, il Governo ci ha ripensato e ha deciso che per il prossimo anno tutto resti come sempre.

La notizia può essere dunque archiviata, non senza, però, qualche riflessione sul motivo di fondo. Perché questo provvedimento? Per ragioni di produttività e di risparmio di spesa quei giorni festivi dovevano diventare lavorativi. Per la stessa ragione si è detto di no: la Ragioneria generale dello Stato ha chiarito che non ci sono sufficienti garanzie di risparmio; anzi la soppressione delle festività nuocerebbe all’industria del turismo. Ragioni economiche suggerivano l’abolizione, ragioni economiche ne consigliano il mantenimento. Ora, questo è il punto: può il fattore economico diventare l’ago della bilancia della vita sociale e religiosa? Il risparmio è un valore, non scoperto oggi, ma esso può domandare di sacrificare valori civili e spirituali?

La tradizione del nostro Paese ci testimonia che il senso della festa non è mai venuto meno anche in situazioni di povertà e di penuria di beni materiali. Il mondo contadino, ad esempio, ha sempre custodito con amore le feste religiose, un tempo ben più numerose. Generazioni di persone che ci hanno preceduto, hanno vissuto la mancanza di tanti beni che noi oggi abbiamo in abbondanza, hanno sentito tutta l’incertezza per il loro lavoro, hanno sofferto carestie e migrazioni. Eppure, il giorno di festa è sempre stato onorato nelle piccole e nelle grandi cose: dal vestito alla tavola, sino al riposo.

Secoli di cristianesimo hanno insegnato che quel giorno andava rispettato – si diceva: non compiendo lavori servili – non perché fosse un prezzo da pagare a Dio, ma perché ridava dignità e speranza a tutti. Vivere la festa anche con poco significa ricordare che, nonostante la penuria di beni materiali, esistono una ricchezza spirituale e un altro orizzonte. L’uomo vive la fatica, lavora col sudore della fronte, ma questo non sarà per sempre. Egli è stato creato per la comunione con Dio, per l’incontro definitivo con lui, quando egli parteciperà per sempre alla ricchezza del Creatore.

È significativo che l’ultima preghiera festiva della liturgia, la compieta, proponga un breve testo di Apocalisse, dove si annuncia la condizione nuova che vivranno gli eletti di Dio (cfr. 22,4-5). In quel giorno, domenica senza tramonto, coloro che saranno eternamente salvi non avranno più bisogno di farsi chiaro con una lampada, perché Dio stesso li illuminerà e regneranno con lui in eterno. Parole che fanno sentire la nostalgia di un’altra condizione, cui tutti siamo inviati.

Insomma, la festa conduce lo sguardo verso l’alto e insegna a sperare; ricorda che l’uomo è più grande del lavoro e delle preoccupazioni per esso. Colloca gli impegni terreni nella giusta prospettiva: non saranno mai il fine dell’uomo, quelli che lo dovranno assorbire, ma solo un mezzo per raggiungere la pienezza dell’esistenza in Dio. Non di meno sono importanti le festività civili, perché esse sono la celebrazione di valori umani, come la libertà o la dignità del lavoro, e quindi appartengono alla sfera spirituale della persona.

Per non far festa o per spostare la festa deve esserci un grave motivo. È stato detto che l’abolizione di queste festività avrebbe inciso su l’uno per cento del prodotto interno lordo (Pil) del nostro Paese. Ora, c’è da domandarsi: se anche avesse pesato in modo ben più forte, sarebbe giustificato toccare la dimensione spirituale dell’uomo al punto da impoverirla? E, ancora più in profondità, non c’è forse il rischio che la preoccupazione per l’economia diventi eccessiva al punto da instaurare una nuova forma di capitalismo, dove i parametri della ricchezza diventano discriminanti per popoli e Paesi? Le stime economiche non di rado premiano o puniscono, assegnando voti che suonano come classifiche spiacevoli e umilianti. Sembra che la civiltà di un Paese, la sua cultura, la sua tradizione non contino più nulla di fronte ai parametri economici.

Se il criterio di progresso è dato unicamente dall’economia e dalla ricchezza, i sacrifici richiesti saranno pesantissimi; talvolta anche ingiusti. Si ha l’impressione di compiere una corsa frenetica. Ogni tanto conviene fermarsi e ricordare alcune acquisizioni, cui è giunto, per esempio, il magistero sociale della Chiesa. Alla luce della divina Rivelazione l’attività economica va svolta come la risposta alla vocazione che l’uomo ha ricevuto da Dio: custodire la Creazione, promuoverla e amministrarla secondo giustizia. Il cristianesimo non ha mai considerato il progresso economico e materiale come fini a se stessi, ma come mezzi perché tutti abbiano un giusto benessere.

Come sempre non si tratta che pochi o tanti con sacrifici siano potenzialmente ricchi e premiati, ma che tutti, in quanto membri dell’unica famiglia di Dio, godano i medesimi beni. Occorre fermarsi per chiedersi verso dove si stia correndo. Forse qualche giorno di festa in più sarebbe necessario. È una questione di sapienza!