Lo “sciopero sociale” porta in piazza categorie molto differenti tra loro, lavoratori e non, ciò però che accomuna e che in modo preoccupante finisce per sfociare talvolta in una violenza ingiustificabile, sono la rabbia e la tensione sociale che in Italia sembrano voler esplodere. Sono il frutto (anche) di anni duri, di crisi non solo economica, ma di prospettive (e valori), in cui le persone si trovano a fronteggiare la recessione, le difficoltà del lavoro e soprattutto la mancanza di speranza. La percezione comune è di marciare con il freno a mano tirato, di agitarsi magari tanto senza ricavarne benefici, di non vedere la famosa luce fuori dal tunnel.
Questa percezione negativa, legata anche a un modello di società che mostra la corda e che, nelle ristrettezze del momento, evidenzia tutte le sue contraddizioni (interne ed esterne, nello svolgersi delle dinamiche sociali nazionali come nell’intersecarsi più complesso di quelle internazionali) è probabilmente più forte tra i giovani, ai quali appartiene anzitutto la dimensione della progettualità, per i quali lo sviluppo non è un grafico economico, ma ossigeno per la vita. Di fronte a una situazione del genere c’è la possibilità che la frustrazione sfoci da una parte in atteggiamenti di indifferenza e “ritiro” nel proprio privato (magari esso stesso coltura di sentimenti potenzialmente esplosivi) e dall’altra in ribellione aperta, violenta, come capita di osservare in alcune manifestazioni di piazza.
I violenti sono pochi, si dice. Ed è anche vero che i gruppetti organizzati di provocatori coinvolgono numeri esigui. Tuttavia non può sfuggire l’escalation di sentimenti e atteggiamenti di contrapposizione che passano con facilità dagli insulti alle botte, dagli slogan agli scontri. E questo deve preoccupare. Tanto più se, come accade da sempre, in alcuni meccanismi di contrapposizione sociale viene trascinato il mondo della scuola. Ci sono sempre gli studenti in piazza, pochi o tanti che siano. E la scuola è sempre motivo di “battaglia”, non di rado in modo strumentale.
Ecco allora che l’“autunno caldo” deve mettere una volta di più in allarme il sistema scolastico, che è poi il vero anticorpo per una società che può rischiare derive violente. La scuola è in mezzo alla società, ne percepisce i cambiamenti e gli umori. È una palestra concretissima dove esercitare democrazia, tolleranza, scambio aperto di idee, rispetto e pratica delle diversità. Questa è la “buona scuola”, e giustamente gli studenti rivendicano, sugli striscioni “la buona scuola siamo noi”. A patto che questa “buona scuola” non dimentichi la propria natura e si faccia trascinare e manipolare.
Naturalmente esistono responsabilità “politiche” nei confronti di questa “buona scuola”, che deve poter vedere in concreto l’interesse del Paese e invertire quella tendenza alla negatività tanto diffusa. Lavorare per e nella scuola – investendo risorse, sistemando gli edifici, valorizzando gli insegnanti e via di questo passo – è sempre più una necessità. Anche per evitare la crescita e l’esplosione di un disagio già forte, di cui proprio i ragazzi e i giovani finirebbero per essere le prime vittime.