La cronaca quotidiana è costellata di episodi di violenza, verso sé stessi o verso gli altri, e di rabbia sterile: la perdita di lavoro, il sovra indebitamento, l’incapacità di accettare la conclusione di una relazione affettiva, la delusione per un insuccesso scolastico diventano delle micce che sembrano trasformarci in vittime o carnefici.
Questi episodi spesso sono sintomi di solitudine e di senso di fallimento che noi, condizionati dalla società narcisistica, non riusciamo a sopportare né ad assistere. In quegli episodi tragici si rileva la mancanza di una rete di solidarietà comunitaria capace di intervenire o di prevenire. Alla nostra società serve l’amalgama per restituire una coesione che aiuti le persone nella difficoltà.
Negli ultimi decenni abbiamo costruito un mito sociale fondato sull’autonomia e sull’indipendenza: cerchiamo tutti la libertà da ogni vincolo e dai vari legami per essere aperti verso qualsiasi scelta e per soddisfare il desiderabile, in modo da compiacere noi stessi, nel momento in cui ci riflettiamo nello specchio.
Però siamo impreparati di fronte all’insuccesso e all’evidenza dei nostri limiti; non li sappiamo affrontare; scorgiamo l’illusione di una libertà immaginaria, come la chiama il sociologo Mauro Magatti. Insomma, per affrontare il malessere diffuso, il legame sociale che abbiamo scacciato dalla porta, rientra scoperchiando il tetto, perché non c’è soltanto il bisogno materiale di cui occuparci.
Si affaccia, allora, l’esigenza di stimolare un welfare comunitario che sia in grado di riattivare, sostenere, ricreare, coordinare gli attori di Terzo settore, come i gruppi informali e le famiglie che operano vicino alle persone. Oltre al “welfare state” tradizionale che aiuta a garantire l’uguaglianza in una società, abbiamo bisogno di un’altra dimensione, quella civile che si fonda sulla fraternità. In essa possono convivere libertà personale e vita comunitaria. Da lì nasce «un sovrappiù di mutuo rispetto, di attenzione, di empatia, di sollecitudine» per l’altro, come spiegava in un’intervista il giurista francese Jacques Le Goff.
Per rispondere al disagio che deprime è necessario uscire da se stessi, altrimenti si soccombe. Occorre ammettere l’importanza dell’altro per la nostra vita. Iniziamo così a riscoprire la bontà della comunità, di persone vicine capaci di condividere un problema, di realtà sociali in grado di accompagnarci quando ci si trova in una condizione di disagio. Soltanto una dimensione calda della solidarietà che parla a tu per tu, che vede il volto delle persone nel bisogno e non frappone il modulo di una pratica può intervenire di fronte alla mancanza di senso che assale le persone oggi.