«Dobbiamo allargare l’orizzonte: se la malattia mentale e la salute mentale riguardano tutti, è importante che ciascuno di noi se ne faccia carico per il proprio benessere e per quello delle persone che ci vivono accanto». Paola Soncini, psicologa clinica, responsabile dell’Area salute mentale di Caritas ambrosiana, delinea con queste parole una modalità corretta di affrontare la questione che troppo spesso torna di attualità solo per sanguinosi fatti di cronaca, come quello accaduto a Milano, dove una 43enne è stata accoltellata da una persona da tempo portatrice di problemi psichici. «Vorrei fare una piccola premessa – continua Soncini -, perché giustamente si è espressa vicinanza e solidarietà alla persona aggredita e alla sua famiglia per quello che è successo. Ma io credo che sia importante esprimere vicinanza e solidarietà anche a chi soffre di una malattia mentale. Ci sono persone malate, ma non violente: spesso, per ignoranza da parte di tanti, queste persone rischiano di subire una stigmatizzazione perché, quando accadono fatti così drammatici, scatta il sinonimo fra malattia mentale e pericolosità sociale».
Dà anche qualche cifra, la responsabile Caritas: «In passato alcuni studi hanno mostrato come nella popolazione generale, così come anche in quella affetta dalla malattia mentale, ci siano persone che possono essere aggressive o violente, ma questa percentuale non era superiore nei soggetti affetti da malattia mentale. Questo oggi va detto, perché altrimenti scattano paure a livello sociale che possono portare ad altre azioni di aggressività, di rabbia. Oggi riscontriamo una certa situazione di allarme nei confronti della fascia minorile, nei preadolescenti e negli adolescenti. Quello che forse va ricordato è che già prima del Covid, in Lombardia, questa fascia era stata attenzionata, tanto che sono state aperte diverse comunità terapeutiche di neuropsichiatria infantile. L’altra situazione è del mondo adulto. Nel 2024, su una popolazione dell’Ats della Città Metropolitana di Milano, che ha più o meno un territorio di 3 mln e mezzo di abitanti, quasi 1% degli adulti è stato preso in carico dai servizi pubblici. Sapendo che c’è una parte di popolazione che non si presenta ai servizi, che non li conosce, che non si considera malata, possiamo dire che è un malessere diffuso anche perché sono dati sempre arrotondati per difetto. Riguardo la disponibilità di risorse sempre nell’Ats della Città metropolitana, posso dire che il 70% di queste è utilizzato per gli interventi di residenzialità, però la popolazione che ne usufruisce è solo il 6%».
Che fare, dunque, a breve termine? Chiara la risposta di Soncini: «Credo che gli interventi possano essere realizzati a diversi livelli. Il primo è quello sanitario, risolvendo la questione degli organici dove oggi, a livello nazionale, si stima che vi sia un 30% di carenza. Occorre un maggiore investimento di risorse, e questo può già essere deciso anche a livello regionale, privilegiando i servizi territoriali, cioè i servizi dove la persona vive, facendo progetti personalizzati con il budget di salute; ciò aiuterebbe a fare un lavoro di prevenzione, di accompagnamento per chi esce dalle comunità e di cura sul territorio. Accanto a questo, un altro livello altrettanto importante è quello sociale. Quando noi pensiamo che la salute mentale non è solo una questione sanitaria, vogliamo dire che riguarda anche la cittadinanza. Quindi, per esempio, lavorare sulle buone relazioni, sul buon vicinato, non lasciare soli i vicini di casa che hanno magari un malato in casa e che si autoescludono nel loro dolore. Dunque, lavorare sull’aspetto relazionale e sul senso di appartenenza della comunità perché, se qualcuno sta male, la mia comunità sta male. E, poi, naturalmente c’è la formazione».



