Sirio 26-29 marzo 2024
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Medio Oriente

Siria: Obama e Hollande in un vicolo cieco

Il Presidente Usa ha difficoltà a tirarsi indietro perché farebbe perdere credibilità agli Stati Uniti e lancerebbe a Russia, Cina e Iran il segnale che l’America è effettivamente una potenza in ritirata

di Stefano COSTALLI

2 Settembre 2013

Con una decisione che non ha precedenti negli ultimi due secoli di storia politica inglese, la Camera dei Comuni ha votato contro la proposta del primo ministro Cameron di intervenire in Siria al fianco degli Stati Uniti. La decisione è clamorosa perché distacca gli Usa dai loro più tradizionali e solidi alleati. Eppure non giunge totalmente inattesa. Dopo un decennio di interventi armati occidentali in Afghanistan, Iraq e Libia, l’opinione pubblica, in molti Paesi europei e negli Stati Uniti, è stanca. Anche molti analisti che alla vigilia della guerra in Iraq, in Gran Bretagna come in Italia, avevano più o meno esplicitamente sostenuto l’intervento, oggi ci hanno ripensato e ne sottolineano la problematicità. David Cameron – la cui linea di azione in politica estera è stata finora caratterizzata da molto decisionismo, ma da scarsa autorevolezza – non aveva percepito questo cambiamento ed è andato incontro a un inatteso e scottante diniego.

Adesso, oltre ad alcuni interessati alleati regionali, come il Qatar e l’Arabia Saudita, soltanto Hollande rimane accanto agli Stati Uniti, cercando di risollevare la scarsa popolarità in patria con un’azione spettacolare sul piano internazionale. Esattamente come fece il suo avversario Sarkozy ai tempi dell’intervento in Libia. Ironia della storia. Di fronte al complicarsi dello scenario, Obama ha deciso di cercare l’appoggio del Congresso all’intervento, così da non dovere sopportare da solo tutto il peso della responsabilità.

Il Parlamento americano tornerà a riunirsi il 9 settembre e fino ad allora il segretario di Stato Kerry e lo staff di Obama cercheranno di convincere della necessità dell’azione le correnti riluttanti che esistono sia fra i Democratici, sia fra i Repubblicani. Probabilmente l’assenso arriverà, ma al momento l’opera di convincimento si sta rivelando più difficile del previsto. Anche negli Stati Uniti, come già ai tempi della guerra in Iraq, si sono levate autorevoli voci critiche e questa volta i Rappresentanti e i Senatori chiedono prove solide per sostenere l’attacco. Sanno infatti bene che in Siria si gioca una partita che coinvolge tutta la regione e intervenire nel conflitto siriano ha dunque implicazioni ben più pericolose che farlo in Libia.

La verità è che buona parte dei problemi di Obama riguardanti la guerra civile siriana sono sostanzialmente autoprodotti. In assenza di un’idea chiara sul da farsi, il Presidente decise di non dichiarare esplicitamente l’estraneità degli Usa a uno scontro fra radicalismo sunnita e autoritarismo di matrice sciita, ma di prendere tempo, senza però riuscire a usarlo per elaborare una politica convincente. In seguito, Obama ha commesso l’ormai chiaro errore di fissare una linea (l’utilizzo di armi chimiche) oltre la quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti, finendo così per incatenarsi a un intervento che sta isolando l’America e in cui manca tuttora un chiaro obiettivo politico.

Il motivo fondamentale per cui Obama ha difficoltà a tirarsi indietro a questo punto è che se lo facesse farebbe perdere ulteriormente credibilità agli Stati Uniti e lancerebbe a Russia, Cina e Iran il segnale che l’America è effettivamente una potenza in ritirata. Se Usa e Ue avessero perseguito da subito con convinzione la via diplomatica, coinvolgendo le principali potenze dell’area, dosando bastone e carota, e coinvolgendo il Consiglio di Sicurezza su un piano articolato, che non fosse focalizzato sull’intervento, difficilmente i risultati sarebbero stati peggiori. Non sarebbe stato facile, ma resta il fatto che non ci si è neppure provato.