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Economia di morte

Siamo noi a vendere gli armamenti

L’Italia si conferma, purtroppo, fra i più grandi produttori insieme alle altre potenze occidentali. Più Cina e Russia. Viene il sospetto che, per non far calare fatturati e guadagni, non ci sia tutto questo interesse a far calare le occasioni di utilizzo

di Nicola SALVAGNIN

13 Ottobre 2015

«Un capitolo a parte è stato riservato alla Difesa, per chiudere trattative di Finmeccanica e Fincantieri Elettronica». Così, delicatamente e succintamente, un grande quotidiano nazionale raccontava – verso la fine dell’articolo – un passaggio dell’incontro fiorentino tra il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e un ricchissimo principe della dinastia che comanda negli Emirati Arabi Uniti. Parole che probabilmente, anzi quasi sicuramente celano una trattativa di vendita di armamenti. Una cosa molto positiva: ci sono fatturati da garantire, posti di lavoro da salvaguardare o incrementare, posizioni da acquisire, concorrenze da sconfiggere. Una cosa molto negativa: mai visto missili usati per arare campagne coltivate.

Parliamoci chiaro: gli armamenti li producono soprattutto cinque potenze occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia, Italia, Israele), più Cina e Russia. Il resto del mondo li acquista e li utilizza. Ma bombe e mitra, sistemi di puntamento ed elicotteri, sofisticati software elettronici e sommergibili non sono mele o detersivi, prodotti qualsiasi da mettere sugli scaffali dei supermercati. Sono strumenti di morte. I prodotti più commercializzati, poi, non sono sfollagente per polizie urbane o spray al peperoncino, ma quanto di più “efficace” la tecnologia moderna riesce ad inventarsi per «ammazzare le persone e salvare gli scoiattoli», come cantava Francesco De Gregori.

E i clienti non sono né gli islandesi né i neozelandesi, piuttosto hanno passaporti quasi sempre riconducibili al Medio Oriente e all’Africa. Putacaso, i luoghi dove i conflitti armati prosperano come funghi. C’è un piccolo Stato nella penisola arabica, il Qatar, che compra armamenti come fosse una grande potenza mondiale, o fosse minacciato da pericoli enormi e imminenti. Invece di mandare bonifici e caramelle, rifornisce milizie e “fazioni” dell’area (dalla Libia all’Iraq) di armamenti ottimi e abbondanti, così come fanno i vicini molto più grossi dell’Arabia Saudita. E la fine dell’embargo dell’Iran ha visto sfilare governanti di mezzo Occidente arrivati a Teheran alla velocità della luce: che sia per capire quali mete turistiche saranno d’ora in poi accessibili, o per piazzare aerei e navi e missili ad un Paese che ne fa abbondantissimo uso in Iraq, in Siria, in Libano, nella Striscia di Gaza?

Poi, oh che gioia, c’è il Giappone – ricchissimo – che ha deciso di accantonare un sessantennio di disarmo per rifornire l’esercito di quanto di meglio il mercato offra a tal proposito. La Cina è vicina e col karate le si fa il solletico, dicono.

D’altronde il business è multimiliardario (si pensi solo quanto costi un aereo militare, altro discorso che riguarda noi italiani), in velocissima evoluzione tecnologica (ora i droni li vogliono tutti e sempre più sofisticati), senza mai un’ombra di crisi. Viene il sospetto che, per non far calare fatturati e guadagni, non ci sia tutto questo interesse a far calare le occasioni di utilizzo. E che per dialogare con gli altri siamo ancora fermi alla preistorica spada sguainata piuttosto che alla mano tesa: con la prima i fabbri guadagnano di più.