Un mix tragico e scioccante: crudeltà atroce, metamorfosi davvero troppo brutale e incomprensibile di un assassino che fino al giorno prima era un “bravo ragazzo”, indifferenza orribile e colpevole di testimoni occasionali, troppo vili o troppo distratti per trasformarsi in “eroi per caso”, inesorabile sottovalutazione dei segnali e invalicabilità di un orrido muro della non-comunicazione, barriera insuperabile tra la vittima e chi, amico, parente o collega, avrebbe potuto ricevere confidenze, lamenti e preoccupazioni. Un mix che in realtà riguarda tanti femminicidi, ma che nel caso di Sara, a Roma, assume la forma tragica delle fiamme e del fuoco, e torna a scuotere le nostre sonnacchiose coscienze.
Invadono la nostra mente calci, pugni, strangolamenti, coltellate e i tanti efferati modi con cui negli ultimi tre anni quasi 500 donne hanno perso la vita per mano di un uomo che si dichiarava innamorato di loro. E quel tragico mix di crudeltà, indifferenza e sottovalutazione lo ritroviamo puntualmente in ogni caso.
I numeri dicono che ogni due o tre giorni una donna viene uccisa in Italia da un ex marito o da un amante respinto. Uomini feriti nel loro narcisismo, troppo fragili per gestire la frustrazione relazionale, dominati dall’incoercibile bisogno di affermare se stessi attraverso la violenza. Le vittime in genere hanno chiesto aiuto, molti sapevano, tanti gli indizi di una tragedia incipiente: ma nessuno è intervenuto. E il copione si ripete. E ogni volta si ripete puntuale e stucchevole il solito coro del baraccone mediatico: ci si interroga sul perché, si indaga morbosamente sulla vittima, quasi a cercare un particolare che in qualche modo renda comprensibile l’incomprensibile inutilità di una violenza omicida così cieca, si invocano nuove misure, si fanno appelli e inviti a denunciare, si raccomanda prudenza (mai accettare un ultimo colloquio chiarificatore con lo stalker), si reclamano più servizi, più investimenti in centri antiviolenza, si intervistano psicoterapeute… Tutto giusto, per carità. Tutto inutilmente gridato, però.
In Italia c’è già una legislazione efficace anche se occorre potenziare quelle strutture che già ci sono e che sono colpevolmente trascurate. Gli stessi politici e ministri dovrebbero chiedersi perché i servizi per la salute mentale in Italia sono ridotti allo stremo delle forze: sotto organico, senza finanziamenti, umiliati nella logistica (i locali più squallidi di una Asl vengono adibiti a servizi per la salute mentale). Ci sono già associazioni, telefoni, sportelli, centri antiviolenza: perché non potenziarli? Perché non finanziare e non mettere in grado i Dipartimenti per la salute mentale – sì, le strutture pubbliche – di funzionare, restituendo loro il compito di riorganizzare una rete territoriale efficace per contrastare il disagio psichico e sociale che sottende la violenza relazionale?
Tuttavia questo non basta. Serve il coraggio di ripensare a una prevenzione che affronti radicalmente la clamorosa crisi della relazione interpersonale in questa epoca postmoderna. E il femminicidio rappresenta uno degli aspetti più inquietanti di questa crisi.
Nel femminicidio assistiamo increduli al cortocircuito del conflitto relazionale: uomini fragili, ma aggressivi, feriti in modo insopportabile nel loro narcisismo e che non possono tollerare la frustrazione relazionale, aggrediscono sino alla morte vittime, che a loro volta non riescono a svincolarsi dalla morsa di una relazione ormai degenerata. In questo c’è una complessiva incompetenza relazionale, che ci spinge a chiederci che tipo di società stiamo costruendo.
Dobbiamo prendere atto che la postmodernità “tecnoliquida”, ai tempi della grande rivoluzione digitale, si caratterizza per la più straordinaria crisi della relazione interpersonale e per il trionfo di una sorta di narcisismo diffuso che impedisce l’incontro autentico con l’altro. Forse dovremmo spostare l’asse già nell’infanzia verso una educazione alla solidarietà e al rispetto dell’altro, parole queste desuete e soppiantate da altre, come competitività, successo e altre simili. Tutto ciò non può prescindere perciò da una rivisitazione dei percorsi educativi nel loro complesso. E soprattutto da una rivisitazione dei modelli e degli stili di vita che proponiamo. Perciò, ogni femminicidio è una sconfitta che interpella tutti e che segnala la progressiva perdita di umanità, che sembra connotare l’epoca della digital mind. Ecco cosa è in gioco in quella tragica fiamma che ha avvolto e divorato il corpo di Sara: quella immagine dolorosissima ci richiama alla necessità di riscoprire percorsi che ci consentano di incontrare autenticamente l’altro in relazioni vere e solidali. Abbiamo bisogno tutti di tornare a scuola di umanità.