Europa tradita dal miraggio della moneta unica, che ha appannato lo scopo di unità politica per cui era nata. Europa a due velocità, con una Germania che detta le agende politiche e finanziarie e un’area mediterranea che non ha saputo conciliare adeguatamente sviluppo e austerità. In tempi di crisi si cercano ricette e capri espiatori, ma uscire dallo stallo è difficile e un’intera generazione ne sta duramente pagando le conseguenze. Ne parliamo a Bruxelles con l’economista Stefano Zamagni, a margine della Settimana della speranza promossa dai vescovi della Comunità europea (Comece), dove il docente ha partecipato a un incontro presentando a un folto pubblico la figura di San Bernardino da Siena e il suo pensiero economico.
Che cosa è andato male in Europa?
Non ha funzionato il fatto che il pensiero e l’opera dei fondatori del grande progetto europeo – De Gasperi, Adenauer e Schumann – non sono stati più seguiti a partire dagli ultimi vent’anni. L’Unione europea doveva essere il punto di arrivo di un processo che, partendo dalla realtà economica, avrebbe dovuto condurre all’unificazione politica. È accaduto invece che, a partire dagli anni Novanta, per tutta una serie di ragioni la nuova classe dirigente europea dei diversi Paesi ha dimenticato il fine e si è andati avanti con i mezzi e, cioè, la moneta unica e, in generale, la dimensione monetaria, senza avere riguardo alcuno nei confronti dell’unificazione politica. L’arrivo nel 2008 della crisi economica e finanziaria dagli Stati Uniti, quindi. si è abbattuto come una tempesta su un corpo già debilitato, producendo gli effetti che stiamo vivendo.
Come ridare fiato all’economia di Paesi obbligati dall’Europa a rimettere in ordine i conti?
Il punto è un altro: e, cioè, che in Italia, come pure in Spagna, per non parlare di Grecia e Portogallo, abbiamo avuto nell’ultimo decennio una classe politica che non ha fatto tesoro del noto aforisma che Platone enuncia nel Fedro: “Il solco sarà dritto e il raccolto abbondante se i due cavalli che trainano l’aratro procedono alla stessa velocità”. Perché se un cavallo corre più veloce dell’altro, il solco piega a destra o a sinistra e il raccolto non c’è. Questa metafora di Platone si applica al nostro caso. I due cavalli sono, da un lato, l’austerità che vuol dire mettere a posto i conti, ma l’altro cavallo è lo sviluppo. Negli ultimi anni i nostri governi hanno fatto andare avanti solo il cavallo dell’austerità e non hanno fatto marciare l’altro cavallo.
È il nodo su cui si è impantanata l’Italia. Cosa dà allora fiato allo sviluppo?
Tre cose: l’abbattimento dei costi della burocrazia, della politica e, più in generale, della rendita. La seconda azione è la lotta all’evasione fiscale. L’evasione fiscale in Italia è di 120 miliardi di euro all’anno. Pensiamo a quante cose si possono fare con quei soldi. Non è un caso se la Cei non perde occasione per denunciare l’evasione fiscale. Anche l’ultimo discorso del cardinale Bagnasco va in questa direzione: l’evasione fiscale contraddice il settimo comandamento. È una forma di furto perché è una violazione della giustizia contributiva. Il terzo provvedimento è la pluralizzazione delle imprese che operano nel mercato. Non possiamo pensare che basti potenziare l’impresa di tipo capitalistico per uscire dalle secche attuali. A fianco delle imprese capitalistiche deve poter operare a parità di condizioni l’impresa sociale, l’impresa civile, cioè tutte quelle forme d’imprese che corrispondono a quelle che noi chiamiamo organizzazioni a movente ideale.
La crisi mette, però, paura e la paura frena le iniziative. Come superare il pessimismo economico?
La società civile è il primo generatore di economia, è il primo generatore di posti di lavoro, di possibilità di sviluppo. Anche nella storia, ha sempre svolto un compito di produzione di beni, servizi e ricchezze. Il sistema di leggi ha poi umiliato la società civile mettendola in sagrestia. Questo è stato il grande tradimento. E adesso ne stiamo pagando le conseguenze.
La speranza?
La mia grande speranza risiede oggi nella Scuola di economia civile che, dal prossimo settembre, partirà a Loppiano, aggregando un gruppo di 50 accademici italiani di diverse università, economisti, giuristi, aziendalisti, sociologi. La nostra idea è che l’Italia potrà uscire da questa situazione soltanto se rimette in moto e al lavoro la società civile organizzata e chiederemo lobby al Parlamento per modificare tutte quelle leggi, lacci e lacciuoli che fino ad ora hanno strangolato letteralmente la dimensione economica delle società civile. Anche perché questo tipo d’imprese hanno una caratteristica, sono generatori di posti di lavoro: non sono ad alta intensità di capitali. Sono imprese ad alta intensità di lavoro e, quindi, potrebbero facilmente reimmettere nel circuito produttivo almeno 600 mila persone che oggi sono disoccupate.