Il raggiungimento di un accordo fra Democratici e Repubblicani sul tetto del debito pubblico americano è stato indubbiamente un fatto di assoluto rilievo sul versante della politica internazionale. Grazie a questo accordo, siglato dopo un lungo muro contro muro fra i due grandi partiti e quasi due settimane di chiusura degli uffici statali non indispensabili, che hanno lasciato a casa poco meno di un milione di persone, gli Stati Uniti hanno evitato il default. Almeno per il momento.
Il presidente Obama è uscito da questa vicenda da vincitore, è riuscito a far dimenticare la brutta figura patita nella vicenda siriana, di cui nelle ultime settimane non si parla più, come se i combattimenti fossero finiti, e sta risalendo nei sondaggi. In parte, questa reazione può essere ricondotta a una strategia comunicativa della Casa Bianca e al famoso disinteresse di un’ampia fetta dell’elettorato statunitense per la politica internazionale, nonostante gli Usa non possano per loro stessa natura disinteressarsene. In parte, però, la reazione è giustificata dal fatto che, in effetti, il pericolo scampato è stato ben maggiore di quanto non si sia percepito in Italia.
Per capirsi, è sufficiente pensare al default dell’Argentina accaduto ormai una decina di anni fa, al caos e alle perdite che causò, sostituendo gli Stati Uniti al posto dell’Argentina. Oltre alle dimensioni incomparabili dell’economia americana rispetto a quella argentina, è da tenere presente che i principali creditori di Washington non sono tanto dei privati in cerca di investimenti remunerativi, ma i principali stati del mondo, fra cui la Cina e la già super-indebitata Italia. Se gli Stati Uniti a un certo punto si dichiarassero insolventi, il sistema economico e finanziario mondiale subirebbe conseguenze letteralmente incalcolabili, sia direttamente che indirettamente, attraverso un crollo della fiducia generalizzato. Sembra un’evenienza così assurda che anche i mercati internazionali non l’hanno presa veramente sul serio nelle scorse settimane. Eppure potrebbe accadere.
Sempre per capirsi, se gli Stati Uniti fossero nell’Euro, ne sarebbero già stati cacciati da un pezzo. Il primo paradosso racchiuso in questa vicenda è che se gli operatori finanziari internazionali scommettessero sul default degli Usa come hanno fatto su quello della Grecia, dell’Italia o di altri Paesi, rischierebbero di provocare un collasso di tutto il sistema, e quindi in sostanza una perdita anche per loro stessi. Il secondo paradosso è che nonostante questa indubbia posizione di vantaggio, in realtà gli Stati Uniti sono già incapaci di sostenere il debito pubblico che li grava. Non a caso la Cina, che detiene la fetta più consistente di buoni del tesoro americani, ha ammonito Washington in diverse occasioni, lamentandosi di una gestione irresponsabile del debito, che secondo Pechino non si cura a sufficienza della posizione di chi finanzia questo debito con miliardi di dollari che finiscono nelle casse federali americane.
Il punto (o l’ultimo paradosso) è che l’unico modo per gli Usa di evitare il proprio fallimento e il crollo del sistema non è tanto cercare di rientrare dal debito, anche se una sua limitazione è indispensabile, ma continuare a crescere. Gli Stati Uniti possono evitare il crollo se continuano a essere gli Stati Uniti, a produrre innovazione, a sostenere un ruolo di primo piano nell’economia e nella politica internazionale. Solo così potranno continuare a essere inattaccabili per i mercati internazionali. Se gli Stati Uniti non fossero più diversi da tutti gli altri, allora tutto potrebbe cambiare, e non necessariamente in meglio.