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Milano

Nelle carceri e nei Cie: diritti negati e leggi da rispettare

In Caritas Ambrosiana un dibattito schietto che ha trovato il consenso di tutti i relatori nel denunciare abusi, ingiustizie, violazioni delle norme nei confronti dei reclusi e dei ristretti nei Centri di identificazione ed espulsione

di Luisa BOVE

3 Luglio 2012
CARCERI. I DETENUTI SCIOPERANO IN TUTTA ITALIA

Sciopero dei detenuti in tutti i 48 carceri italiani Sono numerosi i detenuti che hanno deciso di partecipare, a partire da oggi, allo sciopero del vitto che durerà altri nove giorni. L'iniziativa è partita dal carcere romano di Rebibbia e dall'associazione Papillon. La protesta è contro il sovraffollamento delle carceri italiane, ma attraverso lo sciopero i detenuti chiedono anche la riforma del codice penale e l'indulto generalizzato. Sono richiesti anche l'aumento della liberazione anticipata a quattro mesi e il passaggio della sanità penitenziaria al sistema sanitario nazionale.

Si è già detto e scritto molto in questi anni in tema di diritti umani, ma il valore aggiunto è che ora a farlo è il Senato della Repubblica. A presentare il Rapporto – redatto dopo un anno di sopralluoghi tra carceri italiane e Centri di identificazione ed espulsione, colloqui con i direttori di istituti di pena e incontri con organizzazioni umanitarie -, è arrivato da Roma il senatore Roberto Marcenaro, presidente della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani intervenuto al dibattito promosso da Caritas Ambrosiana.

«Ci sono limiti che non possono essere superati», ha detto senza giri di parole il senatore, «se si abbandona questo punto di vista, l’intera costruzione dei diritti umani è destinata a crollare». Eppure nelle carceri italiane «ci si rende responsabili della violazione della legge».

Per quanto il problema del sovraffollamento sia grave, ammette, questo non è l’unico, «perché c’è un contesto generale che colpisce le persone recluse». Il sovraffollamento quindi non è una causa, ma «la conseguenza di una certa visione di carcere nella sua funzione istituzionale». Forse, aggiunge Marcenaro, se si affrontassero congiuntamente la recidiva, l’attesa di giudizio, il problema della tossicodipendenza e l’immigrazione, «ne uscirebbero leggi migliori».

E che dire dei Cie? «Sono peggio delle carceri, dove spesso ci sono persone recluse senza essere state giudicate». Queste strutture erano nate per ospitare gli stranieri solo per qualche settimana, «ora invece vi restano anche fino a 18 mesi». In questi centri non esiste nulla: «Il tempo è completamente vuoto e riempito dall’ansia di persone che non conoscono il loro destino», dice Marcenaro. Si tratta spesso di giovanissimi mescolati a persone appena uscite dal carcere per reati di spaccio, criminalità organizzata e altro ancora. Sono luoghi quindi esplosivi, che «producono insicurezza».

Il Rapporto, che denuncia tutto questo, è stato approvato all’unanimità in Senato e ora lo sforzo sarà quello di arrivare a «un unico disegno di legge per introdurre il reato di tortura», spiega Marcenaro.

A raccontare la situazione disumana in cui vivono i trattenuti nei Cie è Aziz Hellal, operatore di Caritas Ambrosiana, che tutte le settimane entra per assistere i più disperati. Dal 2004 infatti la Caritas, pur non condividendo l’apertura di questi centri, «ha deciso di entrarci per portare un po’ di umanità», come ha spiegato anche il direttore don Roberto Davanzo. Aziz conferma che non è molto quello che possono fare nel centro di via Corelli: piccoli gesti di condivisione, consegna di vestiti, colloqui… ogni incontro è una storia a sé che meriterebbe di essere raccontata.
Oggi le persone trattenute nei Cie sparsi in tutta Italia sono 1901, quasi tutti sotto i 30 anni, con pochissime eccezioni di 35enni. Molti hanno lasciato il paese di origine in cerca di lavoro, senza conoscere le leggi italiane sull’immigrazione (se le avessero conosciute in tanti avrebbero rinunciato), c’è chi arriva con permessi di soggiorno scaduti, con situazioni pesanti alle spalle, senza contare le vittime di truffa, che ingannati in merito a una fantomatica sanatoria hanno pagato fino a 10 mila euro per imbarcarsi e raggiungere il nostro paese.

Chi può fare qualcosa in difesa dei diritti di questa gente sono gli avvocati, che ne prendono le difese e ascoltano i racconti incredibili dei loro assistiti. Paolo Oddi, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, da tempo si batte per i ristretti dei Cie. Ha conosciuto tante storie di abusi, che non sempre vengono denunciate per paura di ritorsioni. Non è eccessivo parlare di tortura in questi luoghi disumani, che Davanzo insiste a chiamare «limbo» e dove «si vive di inedia».

Il problema è che ricorsi, richieste di annullamento o di sospensione di espulsione di questi irregolari vanno presentati al Giudice di pace, spesso impreparato e in materia di immigrazione. Oddi racconta «il caso emblematico» di un uomo di 40 anni, ecuadoregno, che lavorava in nero nell’edilizia, con una convivente e un figlio di due anni. La donna è malata e ogni giorno deve sottoporsi a chemioterapia. Ebbene, lui fermato e ristretto da tempo, deve essere espulso. Nessuno vuole sentire ragioni e addirittura gli arriva l’espulsione anticipata, esattamente il giorno prima del ricorso per richiedere la sospensione (se non l’annullamento) per poter assistere la compagna e seguire il bambino, dopo mille richieste anche al Tribunale per i minorenni. Una storia che non ha ancora un lieto fine.

L’avvocato Oddi denuncia che in Italia non vengono applicate le nuove normative sul reimpatrio, prima fra tutte, «la partenza volontaria» che è prevista dalla legge e consente di lasciare il paese entro 30 giorni.

Il legale dei trattenuti lancia un altro appello affinché ci sia «la riattribuzione delle competenze». Insomma, non siano più i Giudici di pace a giudicare queste persone, «ma la Magistratura togata, come garante nazionale per i ristretti nei Cie».

E ancora a favore dei “trattenuti” parla Stefano Anastasia, presidente onorario dell’Associazione Antigone, e della pesante situazione nelle carceri italiane. La prima soluzione sarebbe quella di «ospitare solo 45 mila persone» negli istituti di pena, se questa è la loro campienza, e «di sospendere la pena agli altri, finché non ci siano le condizioni per incarcerarli».