Share

Riflessione

Nel “market” della salute quale speranza per i bambini?

Una situazione paradossale: oggettivamente viviamo più a lungo e la dovizia di terapie è sempre più numerosa, ma ci sentiamo sempre peggio e i piccoli, specie quelli più fragili, non hanno le cure che meritano

di Massimo MOLTENINeuropsichiatra infantile, Direttore Sanitario Associazione La Nostra Famiglia

19 Febbraio 2024

Papa Francesco ammonisce che «il tempo è superiore allo spazio», perché definisce un orizzonte all’interno del quale «custodire i processi» che si srotolano verso il futuro, superando i vincoli angosciosi di uno spazio che ci chiama a dominare nel presente ogni cosa.

Ora, siamo immersi in un vivere dal tempo sincopato, accartocciato su se stesso, dove tutto deve essere realizzato nell’immediato: nel villaggio contemporaneo, la trepida attesa del sabato è stata annullata, lo spazio del week- end dilatato per vivere un presente pieno di oggetti.

Salute oggetto?

Questa distorsione spazio-temporale si è abbattuta in ogni meandro dell’esistenza: e così la salute, diventata benessere, cioè il diritto di “sentirsi bene” sempre e senza attesa, è diventata un oggetto di cui disporre. L’attesa è angoscia senza fine, il limite è impotenza tragica: il vivere è una frenetica somma di oggetti da possedere. E l’organizzazione sanitaria ci è finita nel mezzo, senza nemmeno accorgersene.

La salute non è più un processo, ma una condizione/oggetto da possedere come diritto: esami, visite, medicine, terapie, di tutti i tipi: tanti oggetti nel luccicante market che promette non solo salute, ma addirittura “ben-essere”.

Le regole del mercato fanno il resto: basta poco per trasformare ciascuno di noi in “acquirente compulsivo” stimolato continuamente da miriadi di sollecitazioni che grazie agli smartphone non ci abbandonano nemmeno la notte: sfruttando la nostra compulsione siamo venduti al mercato affamato di dati, che così ci traccia e condiziona i nostri desideri.

In greco therapeia era sinonimo di servizio; in latino curare era un verbo intransitivo: “mi occupo di…” Nella pratica contemporanea “curare” è diventato un verbo transitivo: curo la malattia, il sintomo, il “mal-essere”: attraverso una tecnicalità ardita ai limiti del transumano e oggetti (le terapie) sempre più numerosi, da possedere compulsivamente.

Però, anche se oggettivamente viviamo più a lungo e la dovizia di oggetti è sempre più numerosa, ci sentiamo sempre peggio: preoccupati per la nostra salute e ancora di più e legittimamente per quella dei nostri figli, arrabbiati per un sistema sanitario che non ci soddisfa come vorremmo e come crediamo legittimo debba essere.

Massimo Molteni

Il problema delle liste d’attesa

«L’officina di produzione» – ossia il Servizio Sanitario – non riesce a soddisfare tutta la domanda: e così si generano le liste d’attesa. Soprattutto nei sistemi pubblici a copertura universale, non solo per la minore organizzazione, a volte vera a volte narrata, ma anche per il venir meno del naturale freno generato dall’incapienza economica dell’acquirente, sempre presente in ogni logica di mercato.

Da molti anni ministri e assessori che si occupano di sanità e welfare combattono la loro intemerata battaglia contro le liste d’attesa: anche quando non si limitano solo a roboanti proclami o a manipolazioni contabili e immettono risorse specifiche e aggiuntive, la lunghezza delle liste non si riduce. Anzi. Bisogni di salute sempre nuovi si affacciano sul mercato aggiungendosi ai vecchi, peggiorando la situazione.

Le straordinarie capacità tecniche sviluppate in ambito sanitario hanno portato a credere che molti “miracoli” siano possibili: e in molte condizioni si ottiene davvero la guarigione.

In questo turbinio di richieste, tutte sacrosante, anche se con cogenze e urgenze differenti, diventa una sfida davvero improba per un servizio sanitario universale riuscire a produrre tempestivamente tutti gli “oggetti di cura” richiesti: il tempo è un fattore spesso decisivo, nei bambini in maniera specifica.

Mercati paralleli

Quando un bene non è disponibile nella quantità richiesta, fioriscono i mercati paralleli: chi può si getta nel privato per trovare le risposte che cerca. Per chi non ha risorse, per chi è più fragile o marginale, quando la malattia non ha cura e ci costringe ad un lungo e faticoso processo di accompagnamento – di immediata evidenza nella condizione di disabilità specie nel bambino – rimane solo il servizio sanitario pubblico: sempre più stremato, abitato da operatori sempre più anziani e disillusi che operano in perenne emergenza, disegnato per “produrre prestazioni” in risposta ad una domanda orientata mercantilmente in tal senso, percepito e vissuto da operatori e pazienti come fallimentare, perché quando la risposta deve essere davvero un “oggetto di cura”, è surclassato dalle dovizie e dalla rapidità del mercato privato; quando la risposta è “occuparsi dell’altro che ha bisogno”, dove il mercato privato furbescamente si eclissa, non ha più nemmeno le coordinate e il passo per saperlo fare. Incapace di capire che il “non-profit”, anche se ormai marginale, può essere un aiuto: pubblico non vuol dire statale; mentre rincorrere la sanità profit e peggio ancora chiamarla a sussidiarlo importandone anche le sue logiche di mercato, può solo portarlo al completo disfacimento: se è “pubblico”, cioè per tutti, non può essere mercato, se è mercato, non può essere “per tutti”.

Un futuro negato

Nel mentre, ci sono i bambini con bisogni di salute e di cura, bambini che necessitano di qualcuno che si occupi di loro e dei loro genitori. Subito, con la sollecitudine di «Maria che in fretta andò da Elisabetta che era in attesa del figlio», perché i bambini nel crescere, anche biologicamente, costruiscono ciò che saranno: e il tempo fugge rapido specie per loro. Le attese, le mancanze di risposte, organizzazioni sanitarie inadeguate e “costruite sbagliate”, rubano ai bambini la speranza del futuro.

È necessario cambiare radicalmente la logica della risposta sanitaria, specie per le condizioni di fragilità e nelle fasi dello sviluppo: è urgente passare dal curare al prendersi cura, investire sulle professioni di aiuto, ridando dignità anche economica al loro ruolo, non perché “produttori di oggetti che aumentano la catena del valore”, ma perché “stanno accanto” nel divenire del tempo, con competenza specifica e tecnicalità adeguata –  “dalla parte dei bambini” -, affiancando i genitori, intervenendo anche con la tecnologia quando serve, sapendo che la crescita di un bambino è un processo che si srotola nel tempo aprendoci al futuro, e che ha bisogno di accudimento, e anche di coccole, fin da subito, specie nella malattia.

La vita di ogni bambino è una scintilla che riempie di luce “la volta celeste”: basta alzare lo sguardo per accorgersene. È un delitto spegnerla con le bombe, annegarla in mezzo ai flutti, soffocarla con l’incuria e la fame, renderla asfittica fino alla sua scomparsa per mancanza di accudimento e di cure, violarla e manipolarla per farne “lampada” dei propri desideri. “Custodire” queste scintille per dilatare il tempo e ridare speranza alla storia: anche alla nostra.