Sirio 26-29 marzo 2024
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Bilancio del G8

Meglio le clausole
su qualità del lavoro e dell’ambiente

Leonardo Becchetti, docente di economia all’Università di Tor Vergata a Roma: «Non possiamo valutare gli accordi di libero scambio solo sulla base degli effetti sul Pil o sul numero di lavori creati». E ancora: «La lotta all’evasione è un punto molto importante»

di Patrizia CAIFFA

19 Giugno 2013

«La priorità è il benessere equo e sostenibile, cioè la creazione di valore economico sostenibile a livello ambientale e finanziario. Dobbiamo mettere in moto dei meccanismi che portino al rialzo della qualità del lavoro e dell’ambiente, altrimenti diventiamo schiavi di una economia che cresce e non siamo all’interno di una economia al servizio della persona». È la raccomandazione di Leonardo Becchetti, docente di economia all’Università di Tor Vergata a Roma, che commenta  le conclusioni del G8 svoltosi nei giorni scorsi a Lough Erne, vicino Belfast, in Irlanda del nord.

Crescita, sviluppo, riforme strutturali sono le parole-chiave dell’accordo siglato a conclusione del G8. Sono le reali priorità?
La priorità è il benessere equo e sostenibile, cioè la creazione di valore economico a livello ambientale e finanziario. Non possiamo valutare gli accordi di libero scambio solo sulla base degli effetti sul Pil o sul numero di lavori creati ma sugli effetti sulla qualità del lavoro. Perché un rischio prodotto oggi dalla globalizzazione è la corsa al ribasso sui diritti del lavoro e dell’ambiente attraverso la liberalizzazione degli scambi. È molto importante procedere come sta facendo Obama negli ultimi accordi con la Colombia, con accordi di globalizzazione 2.0, ossia con clausole sulla qualità del lavoro e dell’ambiente. È vero che il libero scambio nel medio termine porta ad un aumento dell’attività economica e posti di lavoro, però bisogna evitare la trappola della corsa al ribasso dei diritti del lavoro, altrimenti non è un vero progresso. Dobbiamo mettere in moto dei meccanismi che portino al rialzo della qualità del lavoro e dell’ambiente, altrimenti diventiamo schiavi di una economia che cresce e non siamo all’interno di una economia al servizio della persona.

Tra queste priorità vi è la lotta alla disoccupazione, soprattutto riguardo ai giovani e ai disoccupati di lungo termine. Con quali strategie?
Il problema grosso è che ogni Paese si muove per conto proprio, hanno tutti strategie molto diverse. Probabilmente per l’occupazione sono molto più efficaci le strategie degli Stati Uniti e del Giappone, che hanno adottato politiche monetarie e fiscali molto coraggiose ed espansive, pensando prima alla riduzione della disoccupazione e poi all’equilibrio dei conti. Le politiche che stiamo usando noi, dove l’equilibrio dei conti viene prima, sono molto meno efficaci. La tattica americana è migliore, perché i conti si mettono a posto facendo ripartire l’economia. Noi invece siamo bloccati da una serie di “camicie di forza” che sono il fiscal drag (l’aumento della pressione fiscale, ndr), il fiscal compact (il patto firmato da 25 Paesi aderenti all’Unione europea nel 2012 con regole vincolanti per il principio dell’equilibrio di bilancio, ndr), e il tetto del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. Da noi è molto difficile fare politiche che rilancino l’occupazione. Il problema vero dell’Italia è il crollo della domanda interna, responsabile del calo del 4% del Pil nel 2012, compensato però da un aumento del 2% dell’export. Purtroppo, con i vincoli di oggi, non abbiamo le risorse per rilanciare la domanda interna.

L’Italia non ha quindi grandi possibilità?
Dobbiamo considerare tutto alla luce dei fatti: in questo momento abbiamo questi vincoli, diamo all’Ue più di quanto riceviamo, stiamo faticando moltissimo per ottenere un anticipo di 400 milioni di euro dei fondi per il programma sull’occupazione giovanile europea. La verità dei fatti è che oggi, al di là degli entusiasmi, non siamo riusciti a ottenere qualcosa. Aspiriamo anche ai fondi della Bei (Banca europea investimenti), che è stata ricapitalizzata. Noi dovremmo avere una parte di questi fondi per ricapitalizzare i progetti. Al momento l’Italia vorrebbe ridurre le tasse per rilanciare la domanda ma ci siamo arenati. Non sappiamo nemmeno se ci saranno le risorse per non aumentare l’Iva. Da una parte c’è entusiasmo per un futuro di là da venire, e dall’altra c’è la realtà dei fatti.

Il summit ha poi dichiarato guerra ai paradisi fiscali con un accordo contro l’evasione. Quanto è utile?
La lotta all’evasione è un punto molto importante perché gli Stati, avendo molte più esigenze di bilancio, sono diventati molto più severi nei confronti dell’evasione. Il problema fondamentale è che l’evasione è nel cuore del sistema, all’interno dei grandi Paesi industrializzati: perché i centri off shore non sono solo le isole del Pacifico, ma sono il Delaware, negli Usa, dove ci sono più di 40 mila aziende in un solo luogo o l’isola di Man, in Inghilterra. Bisogna vedere se questi intenti si trasformeranno in azione vera e propria. Sarebbe importantissimo perché oggi le grandi aziende, spostando i loro utili in sedi dove non si pagano tasse, pagano molto meno delle piccole e medie imprese.

Di cosa c’è maggiormente bisogno oggi a livello di accordi internazionali?
L’accordo sulla lotta all’evasione fiscale è stato importante. Ma oggi c’è anche bisogno di un coordinamento delle politiche di cambio e delle politiche macroeconomiche. Perché alcuni Paesi del G8 stanno attuando politiche molto aggressive di svalutazione del cambio che penalizzano l’Ue. Avrei voluto vedere maggiori decisioni in termini di coordinamento delle politiche macroeconomiche, delle scelte sui cambi e sulle politiche fiscali.