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Immigrazione

Ma davvero sono ancora stranieri?

Un milione di nati in Italia, e il Capo dello Stato rilancia il tema della cittadinanza. Siamo a un bivio: da una parte la mentalità dell’assedio, dall’altra l’aspirazione all’integrazione

di Andrea CASAVECCHIA

28 Novembre 2011

Sono ormai vent’anni che l’Italia è un Paese di immigrazione. Dovrebbe essere venuto il momento di decidere finalmente come impostare una vera politica di integrazione che guardi al futuro del nostro Paese, piuttosto che a slogan populisti. Un passo in avanti lo hanno indicato alcune istituzioni.

L’input è venuto dal Presidente della Repubblica, che nei giorni scorsi ha rilanciato il tema della cittadinanza ai minori stranieri in Italia. A Giorgio Napolitano ha fatto seguito il nuovo governatore di BankItalia Ignazio Visco, che ha sottolineato come i giovani immigrati siano una risorsa attuale e potenziale per il nostro Paese.

Il numero dei cittadini stranieri in Italia si amplia di anno in anno: complessivamente, ci dicono i numeri, sono circa il 10% della popolazione residente. I minori figli di stranieri sono quasi un milione e aumentano ogni anno di oltre 100 mila unità. Una realtà consistente sono anche le seconde generazioni, che hanno superato le 600 mila persone. Sembra indispensabile interrogarsi se sia anacronistico o meno considerare stranieri ragazzi che sono nati vissuti e cresciuti nel nostro Paese, se vogliamo prepararci a vivere in una società diversa dal passato. Partire dai giovani, nella concretezza dei loro bisogni e dei loro progetti, potrebbe aiutare a superare una impasse che continuiamo a vivere.

Ci accorgiamo di abitare in una società multicolore quando prendiamo l’autobus, quando lavoriamo, quando portiamo i nostri figli a scuola, quando chiediamo una mano per assistere i nostri nonni o i nostri genitori anziani, non soltanto quando vediamo gli sbarchi delle imbarcazioni sulle nostre coste o le proteste nei Centri di Identificazione ed Espulsione.

Viviamo insieme, vicini, e cresce contemporaneamente anche una sensazione di paura, perché spesso, come in tutte le situazioni nuove, non conosciamo chi abbiamo di fronte. Questo timore causa incomprensioni e fratture, ed è accresciuto dal periodo di crisi che non permette di investire come si dovrebbe in politiche di inclusione, rischiando di creare ulteriori spaccature tra i tradizionali ceti popolari sempre più a rischio di povertà e i “nuovi” che vengono da lontano, ma spesso risiedono nelle stesse periferie, negli stessi piccoli Paesi dell’hinterland delle grandi città.

Finora in Italia non si è presa una decisione strategica sul futuro: gli immigrati lavorano, gli immigrati aumentano la micro-criminalità. Così si oscilla su due orientamenti che attraversano anche il dibattito politico. Da una parte la mentalità dell’assedio, che punterebbe a circoscrivere il più possibile il “fenomeno immigrato”, portando a creare nel tempo cittadini di serie A e cittadini di serie B. Dall’altra parte l’aspirazione all’integrazione, che auspicherebbe una società italiana capace di ricomporre le differenze aprendo spazi di ospitalità e di incontro, investendo sulle nuove persone che sono arrivate in Italia e hanno scelto di vivere qui, scommettendo sul nostro Paese tanto da stabilirsi con la propria famiglia.

Ovviamente concedere la cittadinanza ai nati in Italia va nella seconda direzione, perché sceglie di accogliere e di preparare le condizioni per una comunità aperta. Se invece prevarrà la seconda opzione, si finirà col subire il fenomeno, lasciandosi cullare da chiacchiere rassicuranti e protettive, senza riuscire a impedire nuovi flussi migratori…