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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Nigeria

Le vittime di Boko Haram,
figlie di un dio minore?

L'obiettivo degli estremisti è quello di destabilizzare la regione, strumentalizzando la religione per fini eversivi. Per fermarli occorre una leadership politica in grado di interagire positivamente con i Paesi limitrofi e l'Unione africana

di Giulio ALBANESE

9 Gennaio 2015

Mentre la Francia piange le vittime della redazione di Charlie Hebdo, i famigerati Boko Haram hanno sterminato nel nord-est della Nigeria un numero indicibile di civili. Potrebbero essere duemila i morti nell’offensiva contro la città di Baqa e altri 16 villaggi limitrofi nel travagliato Stato di Borno. L’offensiva degli estremisti islamici nigeriani è stata lanciata il 3 gennaio scorso, con un bilancio accertato di almeno 100 morti. Il dato davvero inquietante, a questo proposito, è la latitanza dell’esercito nigeriano che ha rifiutato lo scontro, come peraltro denunciato già in passato dalla società civile, abbandonando così nelle mani degli insorti una base militare nei pressi di Baqa, con i magazzini strapieni di armi e munizioni.

Mercoledì 7 gennaio è avvenuto un secondo assalto dei ribelli: la cittadina è stata letteralmente rasa al suolo, mentre gli altri villaggi della zona sono stati saccheggiati e dati alle fiamme. I Boko Haram, dunque, proseguono inesorabilmente la loro avanzata, continuando a combattere una guerra asimmetrica in cui si destreggiano con grande abilità, seminando morte e distruzione. E a questo punto anche il vicino Camerun chiede aiuto. Il presidente Paul Biya ha rivolto giovedì un appello alla comunità internazionale per fermare i Boko Haram. «Dal Mali alla Somalia, fino alla Repubblica Centrafricana, questi terroristi hanno la stessa agenda», ha detto Biya, spiegando che «di fronte a una minaccia globale serve una risposta globale».

Ma chi sono veramente questi famigerati estremisti? Boko Haram è una locuzione hausa che letteralmente significa “l’educazione occidentale è peccato”. L’obiettivo di questa formazione è quello di destabilizzare l’intera nazione nigeriana, strumentalizzando la religione per fini eversivi. Da rilevare che il nome ufficiale di questa formazione è Jamà atu Ahlis Sunna Lidda’ awati wal-Jihad, che in lingua araba vuol dire “Gente dedita alla propagazione degli insegnamenti del Profeta e al Jihad”. La maggioranza di coloro che militano nel movimento è priva d’istruzione e disoccupata, anche se i finanziatori del movimento estremista sono benestanti. Stando a indiscrezioni della società civile, a parte un coinvolgimento del salafismo di matrice saudita, lo stesso che ha foraggiato alacremente Al Qaeda in giro per il mondo, vi sono evidenti complicità interne al “sistema Paese”, come vedremo più avanti approfonditamente, sia nelle forze armate nigeriane come anche nel Parlamento federale. Ma proprio perché stiamo parlando del più popoloso paese dell’Africa sub-sahariana, segnato dalla difficile coesistenza di oltre 250 etnie, le cui rivalità peraltro non si esauriscono nella contrapposizione tra il nord prevalentemente musulmano e il sud a maggioranza cristiana, è importante riflettere sulla strategia del terrore messa a punto da questa formazione jihadista.

La situazione, infatti, è degenerata notevolmente da quando è stato eletto presidente della Nigeria, nell’aprile del 2010, Goodluck Jonathan, originario del Sud del Paese e portabandiera del People’s Democratic Party (Pdp). Una vittoria, la sua, che non è stata affatto gradita dalle oligarchie settentrionali del paese, di fede islamica, che hanno visto, per così dire, ridimensionato il loro peso politico. Jonathan, infatti, appartiene all’etnia Ijaw, minoritaria a livello nazionale e di tradizione cristiana, ma che rappresenta la maggioranza della popolazione nella regione del Delta del Niger, ricchissima di petrolio e sotto il controllo delle multinazionali straniere. In questo contesto, il fattore religioso si sovrappone a una competizione per il potere che rischia, di questo passo, di spaccare in due la Nigeria. Non v’è dubbio, infatti, che l’acutizzazione del conflitto, in cui a pagare il prezzo più alto è la stremata popolazione civile – come nel caso del massacro di Baqa – sia legato anche all’imminente competizione elettorale, in programma nei prossimi mesi. Il presidente uscente non solo cerca la riconferma, ma vorrebbe – così almeno ha promesso – bonificare le istituzioni federali, ridando credibilità al suo governo.

In effetti, per quanto i Boko Haram siano estremisti pericolosissimi e abbiano come obiettivo dichiarato quello di fondare un nuovo califfato, imponendo la sharia (la legge islamica) a tutta la Federazione nigeriana (attualmente è in vigore solo nei 12 Stati del nord), le ragioni dell’accresciuta attività terroristica vanno rintracciate, almeno in parte, nei rapporti che i Boko Haram hanno stretto, nel corso degli ultimi anni, con politici locali e membri delle forze di sicurezza originari del nord, interessati alla radicalizzazione del conflitto, al fine di rendere la Nigeria ingovernabile.

Una cosa è certa: per fermare gli estremisti islamici occorre una leadership politica in grado di interagire positivamente con i Paesi limitrofi e l’Unione africana (Ua) nella lotta contro il terrorismo. Jonathan, almeno finora, ha dimostrato poca credibilità di fronte all’opinione pubblica per lo scarso impegno profuso nella lotta contro la povertà e la corruzione. Tra l’altro, è in cima alla classifica dei 10 capi di Stato più pagati nel 2014, secondo la rivista People With Money, con un fatturato stimato di 58 milioni di dollari. In occasione del matrimonio del suo primo figlio, lo scorso aprile, ha commissionato delle bomboniere molto costose per gli invitati: degli iPhone d’oro zecchino, con impressi i nomi degli sposi e la data delle nozze. Tutto questo sperpero di denaro mentre i Boko Haram imperversano impunemente nel suo Paese. La comunità internazionale per quanto tempo ancora starà alla finestra a guardare? Le vittime di Baqa sono forse figlie di un dio minore?