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Intervista

La vergogna delle carceri:
riconciliare e riparare

Per Luciano Eusebi una parte di processi penali può essere gestito senza arrivare alla pena: dalla messa in prova alla procedura riparativa e fino alla mediazione penale

di Riccardo BENOTTI Agenzia SIR

12 Febbraio 2013

Trentasette uomini girano in cerchio all’interno di un angusto cortile, con la testa bassa e il passo della solitudine. È “La ronda dei carcerati” di Vincent Van Gogh, che nel 1890 imprimeva su tela la disperazione della reclusione nel manicomio di Saint-Rémy. Un quadro sofferto e ossessivo che racconta l’emergenza sociale del sistema penitenziario italiano. A fronte di 47 mila posti regolamentari, i detenuti rinchiusi nelle carceri nostrane sfiorano quota 66 mila con un tasso di affollamento al primo posto in Europa. Numeri che mostrano una realtà penitenziaria ormai insostenibile, come ha ricordato nei giorni scorsi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita alla Casa circondariale di San Vittore, richiamando la responsabilità del Paese: «Sono in giuoco il prestigio e l’onore dell’Italia». Per riflettere sulle condizioni in cui versa il nostro sistema carcerario abbiamo intervistato Luciano Eusebi, ordinario di diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Per il presidente Napolitano, nessuno può «negare la gravità dell’attuale realtà carceraria nel nostro Paese»…
È una considerazione assolutamente condivisibile, evidenziata da anni anche in ambito cattolico. Si tratta di una situazione che deve essere affrontata e il tema della criminalità non può costituire un terreno di affermazioni demagogiche, finalizzate ad acquisire consenso tanto più in un momento elettorale. Bisogna invece recuperare la capacità di attuare una prevenzione seria, che non passa per la sofferenza in carcere ma per la differenziazione seria degli strumenti sanzionatori.

Dunque l’amnistia non è una soluzione al problema?
L’amnistia può essere considerata soltanto un passaggio, se indispensabile, per far fronte all’emergenza. È ora di porre mano a una riforma reale dell’apparato sanzionatorio penale. Abbiamo tutti gli elementi a nostra disposizione. Un sistema incentrato sulla pena detentiva non è in grado di incidere, ad esempio, sulla criminalità mossa da ragioni economiche. Paradossalmente, paralizza l’apparato penale che non può gestire milioni di processi e, in una certa misura, corrisponde a certi interessi che possono soggiacere all’inefficienza del sistema. Interessi che trovano beneficio nel presentare all’opinione pubblica soltanto i fatti eclatanti di criminalità, soprattutto omicidi all’interno della famiglia, per alimentare la domanda di pena detentiva.

Sono maturi i tempi per una riforma organica dell’apparato sanzionatorio?
Le conoscenze necessarie per una riforma di questo tipo sono disponibili da molti anni. La centralità della pena detentiva, lungi dal costituire un mezzo per una prevenzione più efficace, fa sì che non vengano adottati strumenti che sono maggiormente in grado d’incidere sugli interessi materiali che quasi sempre stanno a monte della criminalità. Si dovrebbe pensare, invece, a percorsi che tengano conto della situazione esistenziale effettiva. La gran parte della popolazione carceraria, infatti, è composta da persone che provengono da situazioni di grave disagio sociale. La pena detentiva mantiene un suo ruolo in circostanze particolari, come la ripetizione di gravi reati o la necessità di recidere i legami di appartenenza con organizzazioni criminose. Altro aspetto che la centralità della pena detentiva dimentica è il filone della risposta sanzionatoria della giustizia riconciliativa e riparativa. A riguardo, abbiamo già molti strumenti disponibili.

Di quale genere?
Una parte di processi penali si potrebbe gestire senza arrivare alla pena. Un esempio è dato dalla “messa alla prova”, che permette di strutturare la risposta al reato nei termini di un percorso significativo in rapporto alle condizioni personali del soggetto, piuttosto che nei termini di una rappresentazione della gravità riferita al fatto colpevole. C’è poi la questione della “procedura riparativa”, che implica un impegno reale dell’imputato come già accade all’estero. E ancora la “mediazione penale”, che anche dal punto di vista cristiano sarebbe una modalità costruttiva di giustizia: con una sospensione dell’iter processuale, si consente un cammino di mediazione che riferirà al giudice circa la qualità e i risultati raggiunti durante la procedura, senza menzione ai contenuti del dialogo. Viene in tal modo valorizzato lo spessore preventivo del percorso offrendo alla vittima un’opportunità realistica di pacificazione, nell’ambito di rapporti personali concreti. È un modo per ricreare, in sostanza, la possibilità di dire la verità.

Il rispetto della legge deve essere letto come una scelta o un’imposizione?
La visione tradizionale ha sempre proposto all’opinione pubblica la prevenzione come effetto dell’intimidazione. Più crudele è la conseguenza del reato, meno saranno i reati. In realtà la tenuta di un sistema sociale non dipende dall’intimidazione. Nel momento in cui il rispetto delle norme dipende esclusivamente dal calcolo e dal timore di essere scoperti, non ci sarà l’adesione alla norma appena il controllo viene meno. La prevenzione dipende dalla capacità di tenere elevata, anche attraverso i sistemi sanzionatori, l’approvazione delle norme per scelta. È per questo che una persona recuperata fa prevenzione sul territorio, mostrando che la legge è capace di convincere. A questo si aggiunge la prevenzione primaria, che non è soltanto operare sul disagio sociale, ma anche mettere al bando i paradisi off-shore, superare il denaro contante e rendere tracciabili i trasferimenti, ottenere la fedeltà fiscale. Per fare una buona prevenzione della criminalità si devono accettare dei sacrifici.

Ha ancora senso, in questa prospettiva, parlare di ergastolo ostativo?
Abbiamo una normativa sull’ergastolo mitigata dall’ordinamento penitenziario che concede, nei tempi lunghi, il fine pena. Sono state create, però, delle categorie di detenuti che hanno limitazioni all’accesso dei benefici: possono accedervi solo se collaborano con la giustizia. Qui non si tratta di una collaborazione in corso di processo, ma riferita a fatti accaduti talvolta decenni addietro. Si crea così una situazione che ha dell’incredibile: è come se lo Stato non dicesse “se collabori, avrai un premio”, ma “se non collabori, ti privo di diritti”. La conseguenza è che l’ergastolano, non potendo avere benefici, non potrà uscire mai dal carcere. Un simile regime trasforma la logica che attribuisce effetti premiali alla collaborazione nella logica opposta di natura costrittiva rappresentata dalla privazione, per il non collaborante, del regime sanzionatorio ordinario, privando di rilievo qualsiasi percorso rieducativo e la stessa constatazione di un sicuro ravvedimento.