Sirio 26-29 marzo 2024
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Firenze

La strage dei senegalesi: dal lutto all’impegno

Intervista a Oliviero Forti dell’Ufficio immigrazione di Caritas italiana

a cura di Patrizia CAIFFA

15 Dicembre 2011
Policemen stand by the bodies of two Senegalese vendors who were killed on a market on December 13, 2011 in Florence. An Italian far-right militant Tuesday killed two Senegalese vendors and wounded three people in a shooting spree in broad daylight in Florence after which he was found shot dead.  AFP PHOTO / STR

Fiori, candele e biglietti sul luogo della tragedia. Firenze piange i due senegalesi uccisi il 13 dicembre nel mercato di piazza Dalmazia, da un estremista neofascista che ha ferito altri tre senegalesi prima di togliersi la vita. Il sindaco Matteo Renzi ha proclamato il lutto cittadino. L’arcivescovo, monsignor Giuseppe Betori, ha subito espresso «profondo dolore e severa riprovazione per quanto è accaduto», auspicando che «la mente e il cuore di ciascuno, in questa città, siano liberati dagli spettri del razzismo e dell’odio etnico. Firenze ritrovi la sua vocazione di città dell’accoglienza e del dialogo. Ogni manifestazione di odio sia prontamente ricacciata dalla coscienza dei fiorentini».

Secondo monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, è «un segnale gravissimo di una crescita di fenomeni di razzismo che sfociano nella violenza gratuita, purtroppo alimentata dalla facilità della concessione del porto d’armi e dal ritorno di estremismi culturali e politici». La Fondazione Migrantes si augura che il popolo senegalese «non risponda alla violenza ricevuta con altra violenza, che rischierebbe di trasformare Firenze da città della pace a un luogo di conflittualità».

In Italia i senegalesi sono oltre 80 mila di cui circa 9 mila in Toscana. Ne abbiamo parlato con Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio immigrazione di Caritas italiana.

Cosa sta accadendo? Prima l’assalto al campo rom di Torino, ora la strage di senegalesi a Firenze. L’Italia è veramente diventata più razzista?
Non lo direi con convinzione. Bisogna saper leggere il contesto sociale in cui accadono questi episodi, altrimenti si rischia un’ingiusta generalizzazione. Gli episodi di Torino e di Firenze danno la misura di come la nostra società sia sotto pressione per ciò che stiamo vivendo sul fronte economico. Secondo me questi atti sono la manifestazione più grave di un sentimento che rischia di essere diffuso. Siamo ancora una società capace di poter gestire determinate pulsioni, però c’è sempre il soggetto di turno che si esprime in modo tragico e drammatico. C’è una strisciante realtà che, attraverso le fasce più deboli, si rende conto che non siamo più una società opulenta, ma dobbiamo fare i conti con problemi che ci porteremo dietro per anni. C’è un disagio diffuso che probabilmente sfocia in atti che vanno a colpire le fasce più deboli, come i rom e gli immigrati sub-sahariani.

Quindi non è circoscritto solo ad una chiara matrice ideologica…
Ci preoccupano molto, ad esempio, recenti rapporti come quello dell’Ismu: per la prima volta viene riscontrato, tra le fasce giovanili, un certo grado d’intolleranza rispetto a cittadini stranieri, determinato anche dal rischio di vedere questi lavoratori stranieri come potenziali concorrenti. Il nostro Paese ha poi sofferto, negli ultimi anni, per scelte politiche che non andavano verso un’apertura nei confronti della componente immigrata della società. Ma c’è uno zoccolo duro della nostra società che ha dimostrato e dimostra di volersi integrare con gli stranieri. È su questo che dobbiamo investire, isolando il più possibile chi fa ragionamenti in senso opposto. Vorremmo che ci fossero degli interventi decisi perché non si rischi di dover assistere ad altri atti di questo tipo.

Le comunità cristiane, e con queste la Caritas, sono molto impegnate sul fronte educativo. Cosa si potrebbe fare di più per costruire una società interculturale?
In questa fase di crisi bisogna spingere sui grandi temi culturali. Il rischio è di avvertirli ora come qualcosa di superfluo. Invece bisogna stare attenti, perché proprio a partire da questo investimento trarremo poi nel medio-lungo periodo i più grandi profitti. Se l’unico pensiero è di rimettere in sesto i conti, lasciando da parte tutto l’aspetto che attiene alla sfera più alta di una società più viva, dinamica, civile, democratica, il rischio è che il saldo rimanga negativo. Passato questo momento di grave crisi, sul quale giustamente bisogna porre l’attenzione in maniera prioritaria, noi ci aspettiamo, da parte delle istituzioni e dei nuovi ministeri, un investimento serio su questi temi. Perché ne avremo solo vantaggi. La campagna sulla cittadinanza (www.litaliasonoanchio.it) a cui partecipiamo, ad esempio, capita in un momento importante, è un segnale forte. Abbiamo dimostrato, anche con l’accoglienza nelle diocesi per l’emergenza nordafricana, la volontà di creare tutte le condizioni perché la società multiculturale diventi una realtà, non un fastidio, come qualcuno vorrebbe far percepire.

Cosa dire alla comunità senegalese, così duramente colpita?
È una comunità che ha dimostrato in questi anni grande capacità d’integrazione sul territorio. Sono vittime predilette perché sono i più visibili, rappresentano, nel loro status di debolezza, il capro espiatorio più classico. Quello che vorremmo dire è che questo gesto non fa parte di una strategia mirata contro la comunità senegalese, ma è frutto di un disagio più grande. Dobbiamo lavorare insieme per attivare migliori percorsi d’integrazione reciproca. Ricordiamo che l’integrazione non è a senso unico. Riguarda anche la capacità degli italiani di percepire gli stranieri come nuovi cittadini.

Anche i media hanno un ruolo importante: il ministro dell’Interno ha revocato il divieto, per i giornalisti, di accedere ai Cie…
Abbiamo accolto con grande favore la decisione di riaprire i Cie alla stampa. Da tempo, insieme ad altre organizzazioni, avevamo sollecitato questo provvedimento. È un elemento di grande civiltà che va nel senso auspicato. Questi segnali, che sono a costo zero, danno la misura di un Paese che si vuole definire civile. Poter raccontare le condizioni delle persone nei centri, quali possono essere le prospettive, sono elementi importanti per un Paese che vuole vedersi in corsa verso una nuova ricchezza culturale, prima che economica. Nei prossimi giorni verrà inoltre costituita l’associazione per la Carta di Roma. La stampa dovrebbe avere sempre più attenzione a questo Codice deontologico sui temi dell’immigrazione, ma fa ancora fatica. Lavoreremo anche noi per richiamare i giornalisti a questo forte senso di responsabilità.