«Un anno scolastico in attesa», in una scuola che soffre ancora per mancanza di «visione». È la fotografia dell’anno scolastico che sta per concludersi scattata da Giuseppe Desideri, presidente dell’Associazione italiana maestri cattolici (Aimc), che per il suo nuovo congresso associativo, in programma nel gennaio 2014, ha scelto un titolo davvero esplicativo: “Salviamo la scuola”.
Nella prossima primavera, ci sarà il “raduno di popolo” sulla scuola annunciato dal cardinale Angelo Bagnasco. Il presidente dell’Aimc lo considera «un’occasione per porre l’educazione all’attenzione del Paese e far tornare la scuola al vertice dell’agenda politica». Di qui il plauso all’iniziativa della Cei, «che è importante che venga percepita quale essa di fatto vuole essere: un discorso alto, progettuale, forte, su tutta la scuola, non solo su quella cattolica, partendo dalla constatazione che il futuro dei ragazzi è il futuro del nostro Paese».
Qual è il suo bilancio dell’anno scolastico che sta per chiudersi?
Un anno scolastico in attesa, è questa la sensazione che abbiamo avuto noi. Al di là della frenesia gioiosa che caratterizza soprattutto le scuole del primo ciclo, la sensazione è quella di attendere qualcosa che tutti sperano che venga e che non viene, che si accompagna ad una sensazione di un peggioramento che tutti temono. In sintesi, stiamo vivendo una situazione di passaggio, che incide sulla progettualità scolastica. La quotidianità è quella fatta dai bambini, è quella normale, consueta: manca, però, un progetto sulla scuola. Ci sono ovunque dibattiti, convegni, sulla crisi della scuola, ma nessuno si pone il problema di ciò che la scuola dovrebbe essere: ci si ferma alle letture sociologiche, accademiche, statistiche. La conseguenza è una politica di basso profilo, fatta di riduzione di investimenti, di contenimento della spesa, che in ultima analisi si riduce ad una ridistribuzione di quel poco che c’è. Non c’è nessuna progettualità di medio e lungo termine. Si procede con provvedimenti-tampone, ma manca una visione, una proiezione al futuro».
Cosa direbbe a chi ha responsabilità politiche di governance sulla scuola?
La scuola non è un’azienda in cui basta comprare dei macchinari nuovi e fare formazione ad hoc per il personale, e si cambia: le scuole si reggono per il 99% sul potenziale umano, e richiedono investimenti a tempi medio-lunghi, in cui qualunque elemento innovativo va inserito. Negli ultimi anni gli interventi di riforma che si sono succeduti sono durati due o tre anni, neanche il tempo di monitorare le novità. Nonostante ciò, le scuole continuano ad aprire regolarmente ogni anno. Il problema è che si stanno minando le fondamenta, e se continuiamo così alla fine avremo un edificio che crolla. In Italia, le scuole non si reggono per le strutture, ma per la capacità di arrangiarsi di chi lavora al suo interno: chi ne paga le conseguenze sono i ragazzi, e i primi ad accorgersi che si sta creando un gap sempre più profondo tra le generazioni sono i docenti.
Effetti perversi della nuova scuola dell’autonomia?
L’autonomia scolastica, correttamente intesa, non è de-responsabilizzazione da un progetto nazionale: al contrario, qualunque progetto locale o territoriale di scuola si rafforza su una chiara visione nazionale. A patto, naturalmente, che quest’ultima ci sia e venga esplicitata. Oggi, invece, domina una grande confusione su questo punto. Anche la “scuola 2.0” è una scuola che deve lavorare sulla risorsa umana: il nostro Paese, invece, spende un euro a docente per la formazione. Ci sono scuole che aprono e che non sono in regola con l’agibilità e con le norme antincendio: in qualsiasi altro Paese europeo, almeno la metà resterebbero chiuse. Ogni giorno centinaia di migliaia di ragazzi vengono mandati in strutture dove nessuna famiglia, consapevolmente, manderebbe mai nessuno.
Da dove si può ripartire?
Il Paese non può ripartire da un soggetto in cui non crede, e questo Paese non considera più fondamentale la scuola, che invece è centrale nella nostra Costituzione. Nessuno dice che l’Italia è il Paese che investe meno punti di Pil di tutti sulla scuola, situandosi riguardo agli investimenti in questo settore ai livelli dei Paesi del Terzo Mondo. La domanda che dobbiamo porci è allora come invertire questa tendenza. La figura dell’insegnante, in Italia, ha una percezione sociale molto bassa, tanto che non è percepito come una professione su cui puntare, e al massimo è considerato una professione di transizione. Eppure, da recenti sondaggi emerge che il Paese si fida delle forze armate e della scuola, più che del proprio governo e del Parlamento. Per questo è fondamentale rafforzare l’alleanza con le famiglie: abbiamo un sistema di partecipazione che è fermo ai decreti delegati degli Anni Settanta.