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Medio Oriente

Israele e Gaza:
quella testarda volontà

La mediazione ha fatto tacere le armi, ma la situazione rimane preoccupante

di Riccardo MORO

27 Novembre 2012
Members of the Palestinian al-Attar family, displaced during the eight-day conflict with Israel, return to their home in the al-Atatra area in the northern Gaza Strip November 22, 2012, a day after a ceasefire took hold in and around Gaza. A week of cross-border violence between Israel and Palestinian militants has killed at least 160 people. AFP PHOTO/MARCO LONGARI

La tregua tra Israele e Gaza sembra tenere. Un palestinese è stato ucciso dopo il cessate il fuoco – fatto in sé grave -, ma la situazione non è degenerata. Tutta la comunità internazionale plaude al successo della mediazione che ha visto un ruolo centrale giocato dal presidente egiziano Morsi e un investimento politico altissimo da parte del segretario generale delle Nazioni Unite, presente per più giorni personalmente alla trattativa, e degli Stati Uniti, col segretario di Stato Hillary Rodham Clinton in scadenza di mandato a fare la spola tra Tel Aviv e il Cairo e il presidente Obama attivo con frequenti interventi telefonici.

Gli osservatori più smaliziati ritengono che la tregua durerà perché la crisi non serviva a cambiare davvero gli equilibri, ma, paradossalmente, a curare contemporaneamente gli interessi del governo di Israele e di Hamas. Proviamo a osservare il contesto in cui si è sviluppata. Alla Casa Bianca è stato confermato Obama. Libero da preoccupazioni di rielezione, da lui ci si potrà aspettare una ripresa più coraggiosa del dialogo con il mondo arabo e con l’Islam. Al Cairo il nuovo presidente Morsi e a Istanbul Erdogan, rappresentanti di un Islam ortodosso con tentazioni integraliste, ma consapevoli della necessità di costruire un quadro di regole democratiche per uno stato formalmente laico, diventano gli interlocutori naturali per la costruzione di un nuovo equilibrio. A Tel Aviv Netanyahu sta vivendo gli ultimi mesi di un governo tra i peggiori nella storia di Israele, che in questi due anni è stato incapace di avviare un rapporto in qualche modo significativo con i cambiamenti del mondo arabo circostante e si è arroccato sempre di più alla ricerca quotidiana di una maggioranza parlamentare alla Knesset per sopravvivere sino alle prossime elezioni del gennaio 2013. A Ramallah il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, accusato da alcuni di un atteggiamento troppo rinunciatario, evita le azioni di forza e presenta con coerenza la mozione per il riconoscimento dello Stato palestinese alle Nazioni Unite, una scelta coraggiosa che privilegia gli strumenti del diritto e delle istituzioni internazionali, poco efficace a cambiare le relazioni con Israele e con Hamas, ma che gli potrebbe valere la maggioranza al Palazzo di Vetro.

In questo quadro Netanyahu ha bisogno di uno scatto che gli permetta di arrivare alle elezioni con un’immagine vincente, di uomo capace di azioni di forza e di gesti di pace. Inoltre ha interesse a emarginare la leadership della Cisgiordania, che sta imbarazzando Israele (e in parte gli Stati Uniti) con la mozione all’Onu. Meglio offrire spazio politico a un avversario come Hamas che con il fondamentalismo e l’uso della violenza si autoemargina da un dialogo di pace autentico e giustifica in Israele una posizione dura. Nello stesso tempo Hamas si avvantaggia dall’innalzamento del livello dello scontro, concentrando su di sé le attenzioni internazionali, distogliendole dalla leadership di Ramallah e aprendo nuove relazioni (con Egitto e Turchia) in un momento in cui il tradizionale alleato siriano è compromesso dalla guerra civile e incapace di offrire copertura politica. Dalla crisi Netanyahu esce rafforzato in patria, spiazzando i peraltro timidi tentativi della sinistra laburista di presentare al Paese un’alternativa meno virile per le prossime elezioni. Inoltre i bombardamenti hanno ridotto l’armamento di Gaza e hanno permesso di testare il sistema antimissili creato in previsione di una eventuale guerra con l’Iran. Benefici anche per Hamas, che ha partecipato nei fatti per la prima volta ad una trattativa con i grandi player internazionali (dalla quale è rimasta invece esclusa la leadership palestinese) e ha ricevuto un riconoscimento politico che non aveva mai avuto. E non importa se per raggiungere questi obiettivi abbiano dovuto offrire la vita circa 170 persone, fra le quali diversi bambini.

La soluzione della crisi è stata consentita non dal cinismo di chi ha ucciso, ma dalla testarda volontà di chi ha perseguito la mediazione: Egitto, Usa, Turchia, Qatar e segretario generale delle Nazioni Unite. Tra loro particolare credito ha incassato il presidente egiziano Morsi. La sua tessitura ha sciolto le paure di chi temeva un suo schieramento squilibrato in favore dei fondamentalisti. Ma quel credito è stato immediatamente sprecato il giorno successivo, con la decisione unilaterale di rendere del tutto inappellabile il proprio operato e di destituire il presidente della Corte Suprema. Morsi ha giustificato questa decisione dicendo che in questo modo si potranno riaprire e portare a compimento i processi contro chi nel regime ordinò di sparare contro i manifestanti di piazza Tahrir e i lavori della Commissione costituente, ostacolati dal presidente della Corte, un rappresentante del vecchio regime. Gli oppositori di Morsi lo accusano di essere diventato un “Faraone”, come Mubarak, e sono scesi in piazza, attaccati per diversi giorni dalla polizia.

Come si vede la situazione rimane preoccupante. Il prossimo appuntamento è fra pochi giorni all’Onu, con la mozione di Abu Mazen. Le parole di pace, che non condannano, ma chiamano alla relazione, devono ancora testardamente essere ripetute.