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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Analisi/1

Il sociologo Ferrarotti: questa crisi
è figlia di una società fragile

Una generazione di uomini motivati e generosi ha portato l'Italia fuori dalla tragedia della guerra, facendo diventare il nostro Paese una delle potenze mondiali. Ma ora qualcosa si è inceppato: nella famiglia, nella scuola, nella politica... Come se ne esce?

di Luigi CRIMELLA

4 Agosto 2014

Come resistere nell’era della grande crisi? L’analisi di Franco Ferrarotti, professore emerito di sociologia alla Sapienza di Roma, che nella sua lunga attività si è occupato, tra l’altro, di sociologia industriale, sindacati, urbanesimo, religione, razzismo.

Lavoretti precari, micro-stipendi, rarissimi contratti a tempo indeterminato, matrimoni rinviati “sine die”, futuro nebuloso: cosa sta succedendo ai nostri giovani?
Non solo ai nostri giovani, ma a tutti noi cosa sta succedendo: questa è la domanda. Comincio da noi sociologi, con un mea culpa. Siamo venuti meno al nostro compito e alla nostra responsabilità. Alcuni pensano che in una società ‘liquida’, anzi squagliata come quella attuale, basterebbe saper ‘nuotare’ o almeno galleggiare. Altri, come Touraine, parlano di dibattiti come soluzione. Habermas punta sull’agire comunicativo, strumentale ed espressivo. In realtà noi viviamo in una società saturnina, che mangia i propri figli dopo averli generati, come Kronos.

In che senso “mangiamo i nostri figli”?
Le nostre famiglie fanno i figli, li crescono, li educano e formano nella scuola e su fino all’Università. Dovrebbero diventare cittadini, il lavoro dovrebbe dare alla fine un senso alla loro presenza e i mezzi per l’autonomia. Ma molte famiglie sono in crisi, addirittura sono ‘monoparentali’ che è una contraddizione in termini. La scuola poi non fa più il suo dovere formando dei cittadini, perché molti docenti sono demotivati. E infine il lavoro non c’è. Allora il cerchio negativo si chiude.

Come se ne esce?
Il fatto è che ci troviamo davvero in una società ‘liquida’, nel senso di debole, incerta, totalmente amministrata da gruppi dirigenti la cui mediocrità, oltretutto contagiosa, ci sta portando al disastro. Dire come se ne esce non è facile: per fortuna credo che, come sempre accade, ci siano ancora degli ammortizzatori più o meno segreti. Uno di questi, il principale, è la famiglia: essa tiene in piedi ancora una volta la società. Però non ha validità perenne, perché i suoi risparmi, di generazioni, hanno consistenza fino a un certo punto, e si fanno sempre più magri. Forse stiamo perdendo ciò che finora ha garantito quel tanto di coesione sociale e di fatto dato consistenza alla nostra società.

Eppure l’Italia, fino a pochi anni fa, era considerata la quinta o sesta “potenza mondiale”. Dove siamo finiti?
Abbiamo un passato glorioso, eccellenze storiche, artistiche e anche economiche che tutti ci riconoscono. Nel secondo dopoguerra, dal 1950 al 1980 o poco più, in una generazione e mezza il nostro Paese ha compiuto una rivoluzione industriale che in Gran Bretagna ha richiesto due secoli. Oggi però siamo diventati una società stagnante, con “monsignori” inamovibili, una classe dirigente cioè che mira a durare e non a dirigere.

 È giusto che a pagare siano soprattutto i giovani?
Noi adulti abbiamo le nostre colpe, e sono tante. Ma i giovani forse sono vittime dell’effetto esteriorizzante dei mezzi di comunicazione: sono frenetici e passivi allo stesso tempo, non si guardano dentro, non si identificano, non hanno senso del destino, sono foglie al vento, polvere. Detto tutto questo, i migliori purtroppo, dopo averli formati fino alla laurea e al dottorato, li ‘regaliamo” ai Paesi stranieri. Li obblighiamo ad andare a trovare il pane fuori.

Come impedirlo, se da noi non c’è offerta di posti?
Certo è difficile, ma all’estero vengono apprezzati subito. Nel secolo scorso abbiamo esportato “carne giovane” in Argentina, Stati Uniti, Canada, per non parlare dell’Europa. Oggi esportiamo menti raffinate e preparatissime. Praticamente regaliamo agli altri Paesi i nostri cervelli più brillanti e attivi. Per badare al nostro pesante debito pubblico ci stiamo creando un debito intellettuale e morale ancora più grande, mandando via i migliori. E chi resta in Italia?

Sembra che alla fine lei sia pessimista.
No, sono realista. Dobbiamo smetterla di regalare al mondo le nostre cose migliori, senza mantenere per noi l’essenziale. L’Italia può essere uno dei primi Paesi su scala mondiale per intelligenza teoretica e per scienza applicata alla produzione. Siamo anche un Paese dove si coltiva il vero gusto di vivere, mangiare, divertirsi. Dobbiamo darci un colpo di reni e resto ottimista sulla capacità di recupero del nostro popolo.

Da chi verrà questa salvezza?
Penso da sforzi molecolari di base, non conosciuti ma generosi. I governanti devono fare la loro parte, perché meritiamo un presente e un avvenire migliori della situazione in cui stiamo in qualche modo sopravvivendo.