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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Olanda

Il caso di Noa Pothoven: «Nel cervello in crescita c’è uno spazio di apertura e speranza»

Non sono ancora chiare le modalità con le quali l’adolescente olandese ha posto fine alla sua esistenza. Per Paola De Rose, neuropsichiatra del Bambino Gesù, le vittime di abuso non hanno necessariamente un destino segnato e una presa in carico integrale può aiutarle. La morte non è mai la soluzione

5 Giugno 2019
Noa Pothoven

Ha scritto la parola fine. A 17 anni. Per dire basta all’abisso di dolore che l’ha inghiottita dopo i tre episodi di violenza subiti tra gli 11 e i 14 anni. Non è difficile immaginare questa bambina devastata, cresciuta annaspando per non affogare, desiderosa, ma forse incapace, o forse non aiutata abbastanza, nonostante i ricoveri ospedalieri e le terapie, di urlare un dolore che toglie il respiro, e accompagnata a renderlo più lieve. Depressione, anoressia, disturbo da stress post traumatico. Noa Pothoven aveva chiesto di morire per le sue sofferenze psichiche ormai insopportabili, in un Paese dove una legge mascherata di falso pietismo ammette l’eutanasia anche per bambini e malati mentali.

Domenica 2 giugno se ne è andata. Alcuni organi di stampa hanno parlato di morte avvenuta a casa, con l’assistenza medica fornita da una clinica specializzata, circondata dall’amore dei familiari. Altre fonti, invece, di morte causata da interruzione volontaria di alimentazione e idratazione, senza alcun intervento medico. Comunque sia andata, la vicenda lascia l’amaro in bocca ed è una sconfitta per l’umanità. Nella sua autobiografia Vinnen of leren (Vincere o imparare), Noa lamentava l’assenza in Olanda di strutture specializzate per adolescenti gravemente traumatizzati. Ne parliamo con Paola De Rose, neuropsichiatra all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Con la sua équipe ha offerto in primavera consulenza scientifica durante la realizzazione di Jams, la prima serie prodotta da Rai Ragazzi e Stand By Me, rivolta ai giovani, che affronta il tema delle molestie e degli abusi sui bambini.

Che cosa esplode o si spezza nella mente di una bambina abusata?
Il maltrattamento e l’abuso determinano un fortissimo stress che provoca alterazioni biochimiche a livello cerebrale modificando il funzionamento di alcune aree con conseguenze a breve e a lungo termine. Ovviamente esistono variabili legate alla frequenza con cui viene subita la violenza e all’età della vittima, ma anche alla capacità di attivazione di risorse personali e ambientali in risposta. A breve termine queste modifiche biochimiche causano disturbi dell’umore e alterazione della percezione di sé accompagnata da senso di “sporcizia” e vergogna. Le giovanissime vittime di abuso si svalutano, presentano isolamento sociale, difficoltà a stabilire relazioni di fiducia, calo del rendimento scolastico, apatia. Oppure, altro volto del disturbo post traumatico, eccessi di aggressività e comportamenti dirompenti. A distanza di tempo portano invece al rischio di sviluppare un’ideazione suicidaria – rischio triplicato rispetto alla popolazione normale – e psicosi, soprattutto se gli abusi sono stati subiti fra i cinque e i 12-13 anni come nel caso di Noa, quando le risorse cognitive sono ancora scarse.

Nella autobiografia della ragazza si avverte una sorta di “solitudine” legata alla mancanza di strutture specializzate. Poteva essere aiutata meglio a portare questo peso insopportabile? Quali interventi sono necessari in questi casi?
È essenziale la rilevazione precoce dei sintomi del disagio dando uno spazio ai ragazzi in cui poter parlare. La campagna legata alla fiction Jams si chiama non a caso “Meglio parlarne”. I ragazzi devono poterne parlare in famiglia e tra amici; invece avviene troppo spesso, purtroppo, che non vengano creduti né dai genitori né dai pari. Così si chiudono in sé e la richiesta di aiuto arriva molto tardi, quando i sintomi sono già strutturati. Per questo è importante sensibilizzare famiglia, scuola, associazioni.

Quale il passo successivo?
L’attivazione di adeguati percorsi. Esistono linee guida specifiche, validate dall’Oms sulle vie più efficaci per gestire i sintomi post traumatici da abuso: psicoterapia di sostegno e trattamenti farmacologici per aiutare la regolazione dell’umore contrastando i propositi di suicidio. Diversi ragazzi ricoverati nel nostro reparto hanno subito violenze molto gravi. Spesso all’interno dell’abuso sessuale c’è anche una famiglia trascurante e altre forme di violenza psicologica. Gli interventi devono includere anche un lavoro sulla famiglia che, sostenuta, può costituire un potentissimo fattore di protezione. Occorre anche considerare i fattori genetici protettivi personali, cognitivi ed emotivi che favoriscono un percorso favorevole in questi ragazzi. Insomma, non si tratta di un destino segnato per sempre. Noi abbiamo visto molti casi risolversi in modo positivo.

È presumibile che a Noa questo tipo di accompagnamento sia mancato…
Il nostro cervello è progettato per essere felice e per ripararsi, come tutti i nostri organi e tessuti. Il problema nasce quando mancano una corretta elaborazione di quanto accaduto. Senza un accompagnamento adeguato il cervello può andare in tilt. Non ho abbastanza elementi per esprimere un giudizio, ma una corretta terapia farmacologica e un supporto intensivo, insomma una presa in carico integrale, avrebbero sicuramente potuto aiutarla.

A prescindere da questo caso, a difesa della possibilità di eutanasia e/o suicidio assistito per gli adolescenti viene invocato il principio di autodeterminazione e di libero arbitrio, ma che libertà di scelta consapevole può esserci a 17 anni quando l’idea di suicidio si insinua in modo ossessivo nella mente di un’adolescente? Si può parlare di decisione assunta con lucidità?
Lo stress post traumatico è una condizione nella quale vengono disattivate le funzioni corticali deputate alla funzione cognitiva delle informazioni, ossia alla razionalità. Vengono invece attivate le funzioni emotive deputate alla fuga, alla difesa. È come se le nostre funzioni cerebrali non riuscissero a integrarsi bene perché alcune sono disattivate e in mancanza di piena funzionalità cerebrale non vi può essere piena libertà.

Resta il dramma di una legge che permette anche a ragazzi di 12 anni di chiedere di poter mettere fine alla propria vita…
Pericolosa perché non tiene conto dei processi fisiologici di evoluzione del cervello che non è uguale a tutte le età. Solo dagli 11-12 anni cominciano infatti ad attivarsi le funzioni corticali anteriori responsabili dell’elaborazione cognitiva, ancora inattive nei bambini più piccoli. Insomma un cervello di 12 anni è molto meno maturo dal punto di vista dell’elaborazione cognitiva rispetto al cervello dell’adulto. Di questo si sarebbe dovuto tenere conto.

Qual è la sua posizione sul rischio che anche l’Italia possa aprire alla legalizzazione dell’eutanasia?
Come medico sono convinta che la vita debba sempre e comunque essere protetta, insieme alla tutela della guarigione, ossia alla possibilità di cercare in ogni caso strategie di cura. E la cura non prevede mai l’interruzione della vita. I percorsi terapeutici possono essere lunghi e complessi, più o meno efficaci; tuttavia se non tutti i casi sono risolvibili, tutti sono trattabili. Molti dei nostri ragazzi migliorano: c’è sempre uno spazio di apertura e di speranza soprattutto in un cervello ancora in crescita.