Gli italiani tornano a solcare i mari. Se 500 anni fa aprivano l’epoca delle scoperte di nuovi mondi, oggi invece navigano tra le correnti del mondo globale. Questa è una delle novità principali presenti nel 47° Rapporto del Censis. Nell’ultimo decennio i cittadini che si sono trasferiti all’estero è “più che raddoppiato” da 50mila del 2002 a 106mila del 2012. Ad avvalorare la tesi, nel rapporto si sottolinea che nell’ultimo anno circa 1 milione e 300mila famiglie italiane hanno avuto un loro componente all’estero per almeno 3 mesi. E i principali protagonisti del nuovo corso sono i giovani.
Abbiamo ricominciato a emigrare per sopravvivere alla miseria?
Non proprio. Le caratteristiche di questi giovani italiani globali sono abbastanza specifiche: la propensione a lasciare il nostro Paese cresce all’aumentare del benessere delle famiglie di appartenenza e all’aumentare del livello di istruzione. I protagonisti non sono i “poveri”. Suppone il Censis che la globalizzazione in cui sono cresciuti questi giovani abbia abbattuto le barriere e i confini e abbia avvicinato i luoghi, quindi si afferma «un modo diverso di vivere il mondo».
Se osservassimo le motivazioni che conducono i giovani verso nuove terre, troveremmo: gli obiettivi di completare gli studi (master o dottorati), ricercare lavoro, ma anche attuare all’estero il proprio progetto di vita e darsi migliori chance e prospettive di carriera, migliorare la qualità della vita. Scopriamo che se ne vanno i giovani che hanno acquisito capacità più alte e che potrebbero offrire un alto contributo alla crescita del nostro Paese. D’altronde è la conseguenza di una società congelata, che fatica ad accettare le novità e ad aprire spazio all’innovazione.
Si tratta nell’immediato di un impoverimento del nostro Paese. Ma potrebbe essere una risorsa per il futuro?
È difficile ma non impossibile. Gli ostacoli si individuano nei giudizi disincantati che i giovani emigrati formulano sul proprio Paese. Tra le prime tre risposte si trovano l’assenza di meritocrazia per il 54,9% degli intervistati; il clientelismo e la scarsa qualità della classe dirigente per il 44,1%; l’imbarbarimento culturale della gente per il 34,2%.
La critica al nostro Paese suona forte. Non si tratta di mancanza di posti di lavoro. Il problema è più profondo e riguarda un’atmosfera deteriorata del nostro vivere insieme, dell’incapacità di proporre una visione e di trasmetterla alle nuove generazioni, si tratta di difficoltà a riconoscere il valore dei propri cittadini. Ci è richiesta una conversione per diventare più ospitali verso le nuove generazioni. Allora forse in futuro torneranno.
C’è poi un secondo elemento che richiede di assumere una visione progettuale nell’epoca globale: invece di preoccuparci di trattenere quelli che decidono di partire dovremmo creare condizioni per attrarre giovani di altri Paesi e valorizzarli per le loro capacità acquisite per arricchire il nostro “capitale umano”.