Sono trascorsi due lustri da quando il Parlamento italiano, il 30 marzo 2004, ha istituito il “Giorno del ricordo” scegliendo la data del 10 febbraio come occasione per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.
Giorni di quasi 70 anni; il tempo, sempre più lontano, di due o forse tre generazioni. I testimoni diretti si riducono di stagione in stagione, eppure – proprio anche per questo – diviene ancora più impellente il dovere della memoria. Ma non per antistoriche rivendicazioni territoriali o per pericolosi (e purtroppo sempre ed ovunque presenti) rigurgiti nazionalistici.
Non affidare quegli avvenimenti all’oblio della storia, risponde, innanzitutto, al dovere di onorare il debito morale che il nostro Paese ha contratto con coloro che patirono violenze fisiche e morali inenarrabili e la cui vicenda per troppo tempo è stata avvolta nel silenzio connivente delle istituzioni. Quasi dovesse essere loro addebitata la colpa per essere state le vittime di un regime – quello titino – che nella sua cieca violenza non si distaccava da quelli, nazista e fascista, che l’avevano preceduto in quegli stessi territori, cercando nell’ideologia la propria giustificazione.
Se quegli uomini e quelle donne a migliaia avevano concluso la loro esistenza terrena nelle foibe che violentano la pietra del Carso penetrando nella sua anima più profonda; se avevano dovuto abbandonare, da un giorno all’altro, le loro case di Fiume o di Pola, i loro cari nei cimiteri sparsi in tanti paesini di Istria e Dalmazia, una storia personale fatta di apparentemente piccole cose; se tutto questo era avvenuto un motivo “validante” doveva esserci stato. Dinanzi a chi “pretendeva addirittura” di conoscere il luogo dove recitare una preghiera e portare un fiore in ricordo dei propri familiari le porte rimanevano sempre chiuse: era meglio che di loro non si parlasse e che sulle loro storie scendesse una “damnatio memoriae” durata oltre mezzo secolo.
Ma c’è un secondo, forse ancora più importante motivo, per cui è importante celebrare la giornata del 10 febbraio.
Gli avvenimenti di allora devono rappresentare un monito per gli europei di oggi, Specie per le nuove generazioni.
Nelle foibe non sono finiti italiani, sloveni, tedeschi, militari, funzionari pubblici, sacerdoti… Sono finiti uomini e donne di lingua, cultura, religione diverse ma divenuti fratelli ed accomunati nello stesso tragico destino dell’essere vittime di una violenza cieca e brutale il cui obiettivo principale era distruggere la dignità dell’uomo. Il resto (l’ideologia, il credo politico…) erano solo tentativi per cercare di giustificare quello che in ogni caso non poteva né doveva né deve essere giustificato.
A leggere, però, la storia europea di questi ultimi decenni, a ripensare a quanto avvenuto nei Paesi della ex Jugoslavia alla fine del secolo scorso, ci rendiamo conto di come troppo breve sia la nostra memoria. Pulizia etnica, fosse comuni, deportazioni di massa sono parole ritornate frequentemente nelle cronache dei mass media. Per essere, altrettanto velocemente, dimenticate. Sino alla prossima occasione.
Eppure, per i credenti, il dovere del ricordo non avrebbe senso se non si accompagnasse a un preciso impegno per la riconciliazione. Una riconciliazione che va ben oltre il perdono ma indica un gesto da compiere insieme: «Non possiamo non intraprendere – ricordò il beato Giovanni Paolo II durante la sua storica visita a Sarajevo nell’aprile 1997 – il difficile ma necessario pellegrinaggio del perdono che porta a una profonda riconciliazione».
E solo da esso, sia detto senza retorica, può passare la costruzione di un futuro diverso per il nostro Continente.
Un impegno, ancora più impellente e significativo, se espresso in questo 2014 in cui si ricordano i 100 anni dall’inizio di quella che la voce inascoltata e solitaria di Papa Benedetto XV definì la “inutile strage”.