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Riflessione

Etty Hillesum, oltre il filo spinato uno spicchio di cielo

Il profondo messaggio racchiuso nella testimonianza dell’intellettuale ebrea olandese morta ad Auschwitz a 29 anni: nella scelta delle parole, ogni vita ricordata è una storia salvata

di Alberto GALIMBERTI

26 Gennaio 2024

«La scelta giusta delle parole era di importanza cruciale. Dovevano trovare parole non solo per gli eventi del processo, ma anche per l’enormità indicibile dei crimini commessi. Nessuno aveva mai ascoltato e visto nulla del genere prima. I documenti ufficiali e i verbali redatti in arido linguaggio burocratese a stento permettevano di capire le atrocità perpetrate nei campi di concentramento, di comprendere l’abisso nella quale era precipitata l’umanità». È uno stralcio ricavato da Il Castello degli scrittori di Uwe Neumahr. Saggio che riporta lo sgomento e l’impotenza del linguaggio provati dai migliori corrispondenti, cronisti e letterati di allora, durante il Processo di Norimberga. Evento politico e mediatico consumato nella roccaforte nazista, dove erano state approvate le leggi razziali.

La scelta giusta delle parole: un compito insormontabile, ma doveroso. Allora come oggi. Riscattare nomi e volti. Ascoltare le storie e tramandare le testimonianze dei sopravvissuti. Abitare il silenzio di rispetto e il ricordo di coraggio: validi antidoti all’odio, all’indifferenza, al negazionismo. Ciascuno come può, come riesce. È il senso di ogni 27 gennaio, la ragione fondante di ogni Giornata della Memoria istituita per celebrare la memoria della Shoah. A costo di apparire banali, risultare retorici, fallire nell’intento.

La poesia della vita

Qui, in punta di umiltà, si prova a illuminare un dettaglio, forse minore, sicuramente prezioso. Donna dal pensiero affilato e mistica dalla fede irrequieta, capace di costruire il bene dentro il male e far fiorire il futuro dal passato, Etty Hillesum andò per sua volontà nel campo di transito di Westerbork. Assisteva gli internati destinati ad Auschwitz, dove l’intellettuale ebrea olandese troverà la morte a soli 29 anni. Offrendo coperte e conforto. Cucendo vestiti sdruciti e cuori materni dilaniati dalla separazione dei figli. Vestendo bambini e distribuendo viveri e medicine. Continuando a scrivere lettere, a credere pervicacemente nella poesia della vita. Tra i passaggi più noti del suo Diario, svetta questo: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza». Per quanto fragile possa apparire, il miracolo dell’esistenza che vibra in queste parole è possente.

Il filo spinato è l’emblema dei lager, oggetto, tecnologia, che per almeno due volte cambia il corso della Storia. Debutta, infatti, Oltreoceano, nell’Ottocento. Gli americani coltivano il mito della frontiera, sognano la conquista dell’Ovest, cantano l’epopea di immense praterie, sconfinate distese, imponenti canyon. Un paesaggio da punteggiare di ferrovie, strade, centri urbani insieme a fiducia, progresso e ottimismo. Sorge, tuttavia, un problema decisamente più prosaico e non di poco conto: disciplinare mandrie e pascoli, regolamentare allevamento e agricoltura, entrambi motori trainanti dell’economia a stelle e strisce. Irrompe, quindi, l’invenzione del filo spinato a perimetrare confini e circoscrivere pianure. Le industrie siderurgiche, fiorite in quel periodo, ne producono in sufficiente quantità e a costi accessibili.

Ha il sapore dell’aneddoto, ma non lo è. Il filo spinato assurgerà nell’immaginario collettivo a simbolo di dolore e disumanità. Il pensiero corre spedito ai campi di sterminio. Lì, serve, infatti, a recintare le persone, spogliate di diritti e dignità, avviate allo scarto e alla morte. I deportati contano meno degli animali; diventano soltanto numeri, non hanno più nomi. Una delle lezioni più atroci della Shoah è la perdita di valore della vita umana sancita dallo scadimento del nome al numero. La cancellazione del nome e l’apposizione del numero marchiato sul braccio dei detenuti nei campi di sterminio sono alla base della allucinata follia nazista: un genocidio perpetrato con violenza inaudita e a velocità vertiginosa. Non per nulla il Memoriale della Shoah di Gerusalemme, fondato nel 1953, per preservare la memoria delle vittime dell’Olocausto, si chiama Yad e Vashem, letteralmente «un nome» e «un monumento». Perché, nella insormontabile, ma doverosa scelta delle parole, ogni nome ricordato è una storia salvata.