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Esteri

Egitto e Libia,
tra delusioni e attese

Prosegue con diversi interrogativi il processo democratico nei due Paesi

a cura di Daniele ROCCHI

10 Luglio 2012

Cresce la tensione, in realtà mai sopita, in Egitto e si alzano voci di festa in Libia, dove sabato scorso si sono svolte le prime elezioni libere dopo 42 anni, che potrebbero dare la vittoria ai cosiddetti moderati (coalizione di 60 partiti) guidati dall’ex primo ministro del Consiglio nazionale di transizione, Mahmoud Jibril. Se così fosse la Libia sarebbe il primo Paese della “Primavera araba” a vedere sconfitti i Fratelli Musulmani nelle urne. Fratelli musulmani che in Egitto sono entrati in rotta di collisione con la Giunta militare dopo che il nuovo presidente della Repubblica Mohamed Morsi ha ripristinato il Parlamento – fino a nuove elezioni -, annullando la decisione della Corte Costituzionale, datata 15 giugno, che lo scioglieva. Su questi fatti ecco il parere di Riccardo Redaelli, docente di geopolitica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Mentre in Libia si festeggia, in Egitto torna la tensione tra Giunta militare e il presidente Morsi, della Fratellanza musulmana, dopo la decisione di quest’ultimo di ripristinare il Parlamento sciolto dalla Corte. Siamo davanti a un golpe?
Parlare di golpe forse è eccessivo. Un golpe prevede che vi siano delle regole certe, che in Egitto mancano. È evidente che i Fratelli Musulmani non hanno tenuto fede all’accordo pre-elettorale con la Giunta militare, che prevedeva che nessun membro della Fratellanza si presentasse candidato alle presidenziali. Ora, invece, stanno cercando di controllare tutte le cariche elettive dello Stato, mandando un messaggio chiaro: non sono disposti a riconoscere nessuna altra autorità oltre al Parlamento e alla presidenza della Repubblica. Si tratta di un messaggio diretto non solo alla Giunta militare, ma anche alla Corte istituzionale che aveva decretato lo scioglimento del Parlamento. Non riconoscere una decisione della Corte Costituzionale, per quanto questa possa essere contestabile, per quanto la Corte possa essere influenzabile, è un segnale molto grave, perché significa che le regole possono essere cambiate a piacere dal vincitore. Che poi è il problema solito del Medio Oriente.

Come potrebbe reagire la Giunta militare a questa presa di posizione di Morsi?
Difficile dirlo. I militari sanno che una larga parte dell’esercito, quella più bassa delle forze armate, sta con i Fratelli Musulmani. Ma la Giunta sa bene che accettare questa prova di forza significherebbe perdere di fatto molta rilevanza e ciò sarebbe ancora più evidente per la Corte costituzionale. Sarebbe il segnale che i Fratelli Musulmani si stanno orientando verso una gestione del potere che alcuni analisti diverso tempo fa definirono tipica delle democrazie illiberali. È pericoloso che un movimento islamista, che vuole introdurre la sharia ancora di più di quanto sia stato già fatto, non rispetti una decisione della Corte costituzionale. Significa che siamo all’arbitrio come è sempre stato l’Egitto prima. Ed è preoccupante che il cambiamento inizi con una decisione di questo tipo.

La prossima visita di Morsi negli Usa, prevista a settembre, potrebbe servire ad Obama a incanalare su binari meno radicali la politica dei Fratelli Musulmani?
Penso di sì anche alla luce della gravissima situazione economica dell’Egitto che può contare sul sostegno dei Paesi occidentali. Ora se questi venissero meno, potrebbero essere rimpiazzati da quelli sauditi ma solo sul breve e medio periodo. Quella di Morsi è stata una sfida immediata e forte che se passasse metterebbe nelle mani della Fratellanza il controllo totale dell’Egitto e di tutti i suoi centri, compresa la prestigiosa università al Azhar con cui è in atto uno scontro.

In Libia sembra essersi interrotta la serie di risultati elettorali utili della Fratellanza musulmana, superata, stando alle prime indiscrezioni, dalla Alleanza, secolare, delle forze nazionali guidata da Mahmoud Jibril. Pronostico sovvertito?
I dati non sono definitivi e vanno presi, quindi, con le dovute cautele. Si parla della vittoria di Jibril contro il partito Giustizia e Costruzione, guidato dai Fratelli Musulmani. In Tunisia e in Egitto abbiamo assistito al suicidio politico dei movimenti e delle forze più liberali e secolari, presentatesi al voto divise e in aperto contrasto. In Libia lo hanno capito e si sono presentati uniti. Le prime indiscrezioni sull’esito del voto fanno pensare che hanno visto giusto.

Una eventuale sconfitta dei Fratelli musulmani in Libia è un segnale per l’Islam politico?
La Libia ha un dibattito politico molto arretrato rispetto a quello tunisino ed egiziano dove si è votato. Il Paese è legato a identità subnazionali, con forti divisioni regionali e condizionamenti derivanti da tribù e clan. Alla luce di ciò, se dovesse essere confermata l’affermazione dell’Alleanza di Jibril, si potrebbe dire che la ricetta dell’Islam politico non è vincente sempre ed ovunque. Ed è un dato che considero positivo. La cosa importante è che dopo il voto il sistema non si sfasci. Le elezioni sono state un successo, l’affluenza buona al 62%, poche le violenze. Il difficile viene adesso. Non ci si deve frammentare nella scelta del premier e si deve promulgare quanto prima un progetto di Costituzione che sia credibile e funzionale, in cui si privilegi il rispetto delle regole e del bilanciamento dei poteri, che nel Medio Oriente viene sempre a mancare. In questo la Libia può farcela da sola se sostenuta dalla comunità internazionale.

Come giudica l’appello di Jibril all’unità nazionale e al dialogo nel Paese?
Assolutamente positivo. Bisogna vedere se davvero questo è il suo intento e come verrà recepito. Quello che verrà non è un Parlamento in cui bisogna governare, ma è un Parlamento che dovrà costruire i meccanismi di governo della Libia. Si tratta di un’Assemblea costituente in cui serve il consenso di tutti. Se si dovesse spaccare allora il rischio frammentazione è più che mai reale.