Di fronte a quanto sta succedendo e che coinvolge in maniera tragica e disumana molte persone di fede diversa dalla nostra non possiamo evitare di porci alcuni interrogativi. Non si tratta banalmente di assumere un atteggiamento politicamente corretto: i pregiudizi e le precomprensioni fanno parte del gioco. Soprattutto le approssimazioni sono inevitabili. In un primo tempo sarà inevitabile considerare una moschea o una sinagoga come una specie di chiesa, un rabbino o un imam come una specie di prete e solo col tempo se ne coglieranno le profonde differenze… Ma proprio per poter imparare occorre almeno mettere fra parentesi ciò che già pensiamo di conoscere e la valutazione implicita (poco importa se positiva o negativa) che vi è contenuta.
Il nostro approccio sarà inevitabilmente “parziale”, nei due sensi del termine: considererà infatti solo una parte della realtà (quella libresca o derivante dalle poche esperienze fatte) e tale realtà sarà percepita nelle modalità proprie di una delle “parti” in causa (noi), così come avverrà anche per l’interlocutore. Pretendere di far tabula rasa di questo è irrealistico e disonesto. La consapevolezza che anche tali elementi sono presenti e la vigilanza su di essi rappresentano invece una precondizione necessaria al dialogo.
Va ribaltata la prospettiva dei benpensanti, sempre, per non ritrovarsi tra loro a far tanti discorsi basati sul “senso comune”, ma assolutamente privi di “buon senso”, come direbbe Manzoni.
Il che non garantisce, ovviamente, nessun esito positivo né tantomeno esaltante… Potremmo comunque non riuscirci, per inadeguatezza nostra, del nostro interlocutore, di entrambi, o semplicemente perché i tempi non sono ancora maturi. Chi ha detto che le cose importanti debbano essere anche semplici?
È sempre semplice andar d’amore e d’accordo con genitori, figli, coniugi? Perché mai dovrebbe esser più facile intendersi con stranieri e/o estranei? Ci vogliono coraggio, costanza, fiducia che non crollino alla prima difficoltà… e neppure all’ennesima, altrimenti finiremo per rassegnarci – magari inconsapevolmente – al più disumano dei messaggi, disumano per chi lo trasmette ancor prima che per chi lo percepisce: «Sarebbe meglio se tu non ci fossi!».
Nessun essere vivente, foss’anche un animale o persino una pianta, potrebbe condurre un’esistenza decente se avvertisse intorno a sé un sostanziale rifiuto. È esperienza comune, non filosofia. Essere riconosciuti, avvertire che la nostra presenza è accettata e in sostanza apprezzata (nel senso etimologico che significa «a cui è dato il giusto valore») da chi ci circonda non è un optional.
La maggior parte delle catastrofi che sconvolgono le relazioni umane possono essere ricondotte a questo sentimento, magari non esplicitamente espresso, ma spaventosamente evidente nei suoi effetti, specialmente quando si generalizza nei confronti di un’intera categoria di persone che per razza, lingua, religione o qualsiasi altra caratteristica si trovano annoverati in blocco nella categoria degli indesiderabili.
Le atroci “lezioni” che possiamo attingere dalla storia a questo proposito sembrano incapaci di convincerci definitivamente a percorrere almeno quell’“altra strada” che i Magi imboccarono dopo aver reso omaggio a Gesù bambino, per sottrarsi alle trame di Erode.
Non possiamo tuttavia negare che passi in avanti siano stati compiuti, grazie all’evoluzione di ordinamenti giuridici e istituzioni politiche più adeguate al rispetto dei diritti inviolabili di ciascuno, ma è altrettanto evidente che si tratta di conquiste di cui può avvantaggiarsi ancora solo una piccola parte dell’umanità, talvolta in forme parziali, contraddittorie e soprattutto fragili nei loro fondamenti che vengono rimessi in discussione con sorprendente superficialità, benché siano stati realizzati a caro prezzo e in tempi relativamente recenti.
È inoltre assai riduttivo e peraltro inefficace dire e ridire quanto sia negativo e gravido di conseguenze il rifiuto dell’altro, tanto più che pure in questa pars destruens si finiscono spesso per additare ed esecrare casi in cui non noi e non ora siamo responsabili, mentre maggior impegno e determinazione sarebbe da porre nel far fare esperienza del contrario, ossia di quanto possa essere possibile e persino piacevole la relazione con chi è diverso da noi.