Non ci sono solo i produttori e la grande distribuzione: molto dello spreco alimentare avviene proprio nelle nostre case, tra frigorifero e fornelli. A livello mondiale un terzo del cibo prodotto non arriva sulle tavole, e di questo le famiglie ne buttano il 20%. «È la parte più importante da combattere – spiega il professor Andrea Segré, fondatore a Bologna del sistema di recupero di alimenti dai supermercati Last minute market – perché il cibo buttato nelle nostre case è quello che non può più essere recuperato».
Il valore settimanale di quanto finisce nella spazzatura è forse modesto (6,5 euro a famiglia), ma inizia a diventare significativo se si considera quanto non viene consumato (630 grammi) e il suo valore complessivo, che in un anno arriva a 8,1 miliardi di euro. I numeri, presentati ieri all’Expogate di Milano dallo stesso Segré insieme al ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, sono leggermente migliori rispetto all’indagine del 2012, quando il cibo buttato corrispondeva a 8,7 miliardi. Una riduzione che però è in linea col calo del 5% dei consumi alimentari, e che dimostra quanto sia difficile stare attenti agli sprechi.
Le cause che portano a non consumare il cibo acquistato sono infatti sempre le stesse. Il principale nemico è la muffa, poi frutta e verdura che hanno cattivo odore, e in un quarto dei casi ci si “dimentica” della data di scadenza. Il sondaggio mostra però anche famiglie attente: 8 famiglie su 10 dichiarano di controllare se gli alimenti sono in buono stato anche quando sono scaduti e il 60% pensa che quanto non consumato potrebbe essere distribuito a chi non ne ha. Tre persone su dieci, poi, dichiarano di portare a casa gli avanzi del ristorante, ma vorrebbe farlo oltre il 70% degli intervistati.
Non sprecare, però, è difficile, e dipende più dallo stile di vita che dal reddito. Il 10% delle famiglie che al supermercato deve avere un occhio anche al portafoglio consuma in media il 20% in meno di cibo rispetto alla media nazionale, ma butta comunque di più di chi, per sensibilità o abitudine, riesce a ridurre gli sprechi al minimo. Contano molto anche il tempo a disposizione per programmare gli acquisti e il livello di istruzione, coi laureati che, in media, sanno leggere meglio le etichette. A disorientare è soprattutto la distinzione tra la data di scadenza e l’indicazione del termine entro cui è preferibile consumare un alimento: indicazione che vale per i prodotti secchi e che si riferisce non alla salubrità, ma alle caratteristiche organolettiche del prodotto.
Per questo le famiglie ritengono che sia importante puntare soprattutto sull’istruzione nelle scuole, insieme a migliorare le etichette, magari rendendole “intelligenti” per indicare il grado di conservazione del cibo. Un dibattito, questo, in corso anche nelle istituzioni europee, dove in aprile è stata lanciata la proposta di dedicare in tutto il continente un anno contro lo spreco alimentare, magari nel 2016.
In vista di Expo, dove la lotta allo spreco dovrebbe avere un posto rilevante, Segré ha proposto che un campione di famiglie tenga un diario settimanale delle proprie abitudini alimentari. Una pratica già sperimentata in altri Paesi europei, che aiuterebbe sicuramente a essere più consapevoli di quanto si consuma.