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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Intervista

Bangladesh, la voce dei missionari:
«La nostra presenza è un segno di pace»

Dopo la strage di Dacca parla padre Michele Brambilla, Superiore regionale del Pime: «Siamo scortati dalla polizia e le chiese sono presidiate, ma continuiamo il nostro lavoro al servizio di tutti»

di Luisa BOVE

6 Luglio 2016

Non è la prima volta che il Bangladesh viene colpito dagli estremisti islamici. L’attentato del 1° luglio al cuore di Dacca, nel quale sono state barbaramente uccise 20 persone, ha sconvolto il mondo e costretto lo stesso presidente della Repubblica Mattarella ad anticipare il rientro dal suo viaggio in Messico per rendere omaggio alle salme delle 9 vittime italiane, riportate ieri in Italia. Ciò che colpisce in questi giorni non è solo la violenza dei terroristi, ma il loro stesso identikit: giovani formati, poco più che studenti, appartenenti a famiglie “bene”. Hanno preso di mira una zona tranquilla e apparentemente più sicura, quella delle ambasciate, e hanno fatto una carneficina.

«Sono due anni che viviamo in un clima di insicurezza e tensione – ha detto nei giorni scorsi padre Gian Paolo Gualzetti, missionario del Pime in Bangladesh dal 1991, collegandosi telefonicamente da Zirani con i concittadini lecchesi -. Sono state colpite persone di tutte le religioni e ora anche in una zona considerata sicura. Cerchiamo di vivere normalmente, anche se la gente ha paura. C’è sicuramente un invito alla prudenza, ma non manca mai l’attenzione a chi è povero, a chi è bisognoso».

Nei giorni scorsi il cardinale Scola, nel suo messaggio ai fedeli musulmani per la fine del Ramadan, aveva ribadito ancora una volta che «la vera religione cerca la pace e la solidarietà, non il dominio e la violenza». Invece negli ultimi mesi la situazione si è aggravata, come ci spiega padre Michele Brambilla, Superiore regionale del Pime, in Bangladesh da 9 anni. «È dal settembre scorso, dall’uccisione di Tavella (cooperante italiano, crivellato di colpi nella capitale il 28 settembre 2015, ndr), che la situazione è peggiorata: vengono uccise tante persone, soprattutto appartenenti a minoranze religiose, fino ad arrivare alla tragedia di qualche giorno fa, che nessuno si aspettava»

Perché? Non c’erano segnali?
A Dacca le forze dell’ordine sono presenti in massa e comunque la capitale non è considerata una zona pericolosa. Non lo era fino a qualche giorno fa. Ora bisogna fare molta attenzione. Qui al nord nelle Diocesi di Rajshahi e di Dinajpur, dove mi trovo io adesso, siamo sempre scortati dalla polizia. Dopo la strage di Dacca anche tutte le chiese sono presidiate e per uscire bisogna essere accompagnati dalla polizia. Ora siamo in questa situazione e non si sa quanto andrà avanti. Sono stato dal questore qualche settimana fa per alcune questioni della Diocesi di Dinajpur: mi diceva che non vedono la fine, quindi bisognerà continuare con questa protezione. La gente dice che si andrà avanti così fino alla prossima elezione, ma mancano ancora più di due anni e mezzo. Questa è la condizione in cui viviamo, ma continuiamo il nostro lavoro tranquillamente. Non c’è paura da parte nostra, ma certamente bisogna fare attenzione ed essere prudenti.

Sapere che alcuni attentatori hanno frequentato le migliori (e più costose) scuole di Dacca cosa fa pensare?
All’inizio pensavamo che alcuni di loro, essendo andati all’estero, si fossero formati in qualche gruppo fondamentalista. Però adesso, sapendo che sono alto-borghesi e istruiti (uno è anche figlio di un importante leader dell’Awami League, il partito attualmente al governo), viene da pensare a come vengono preparati. Anche se ho sentito che alcuni di loro se n’erano andati di casa da mesi e non si sapeva dove fossero.

I musulmani moderati condannano sempre la violenza in nome di Allah. Tocca anche a loro fare qualcosa?
Certamente. Abbiamo ricevuto da tutti attestati di solidarietà. Anche i poliziotti che mi accompagnano ogni giorno quando esco dicono: «Ci dispiace, non pensavamo neanche noi… Però la situazione è questa». Comunque frange estremiste esistono, anche in Bangladesh, e bisogna riconoscerle. Poi ci sono molte madrasse (scuole religiose islamiche, ndr), ne costruiscono ogni giorno e da lì escono queste persone.

Ma lo scopo degli attacchi terroristici è quello di colpire gli occidentali o il governo bengalese?
Si dicono diverse cose. Qualcuno afferma che è la stessa Awami League a fare questi attacchi, qualcun altro dice il Bangladesh Jatiotabadi Dol: si danno la colpa a vicenda. Però vengono uccise persone di diverse religioni, ci sono stati anche musulmani e sufiti, che non sono ben visti dai fondamentalisti per il loro comportamento, molto socievole e pacifico, e per la loro interpretazione molto più armoniosa del Corano.

In questo contesto cosa dice la vostra presenza lì e la Chiesa stessa?
È un segno. Voler essere qui, far presente che siamo qui al servizio di tutti. Anche come Chiesa bengalese, nella quale lavoriamo, ci sono e continuano a incontrarsi diversi gruppi di dialogo ecumenico e soprattutto interreligioso. Ieri ho visto che i Vescovi hanno preso posizione condannando tutto questo, ma invitando anche a stare uniti, tutti insieme in un solo popolo, nonostante in Bangladesh ci siano tante minoranze tribali. Essere liberi tutti insieme nell’unità.

 

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